È la volta ora di due artiste italiane presenti nella mostra La metà dell’arte, curata da Toponomastica femminile, a Tivoli, nel palazzo della Procura della Repubblica, a testimonianza della partecipazione delle artiste italiane alle correnti di avanguardia che hanno caratterizzato il panorama del Novecento: una aeropittrice, già futurista, e una body-artist.
Olga Biglieri (Mortara (PV), 1915-Roma, 2002)
Nata da una famiglia di agricoltori benestanti, personaggio straordinario per il suo tempo, pronta a rompere gli schemi tradizionali, è stata aviatrice, pittrice, giornalista, femminista, pacifista. Trasferitasi a Novara a undici anni, e avendo già dimostrato interesse per il disegno, prese lezioni dal Maestro Lampugnani. Di nascosto dal padre, si iscrisse al I° corso di volo a vela all’Aereoclub di Cameri (in provincia di Novara) conseguendo prima il brevetto di pilota, appena diciottenne, e in seguito il brevetto per gli aerei a motore. Un paio di anni più tardi, Olga, che nel frattempo frequentava anche i corsi all’Accademia di Brera a Milano, iniziò a dipingere le sensazioni che provava volando, la felicità suprema di fondersi col vento: «Quando ero su nel cielo, non avevo più un corpo, ero solo spirito».
Nel 1935 partecipò a una movimentata serata futurista al teatro Coccia di Novara ed entrò in rapporto con il gruppo futurista veronese, dedicato a Umberto Boccioni. Un suo quadro, intitolato Vomito dall’aereo, finì nella vetrina di un corniciaio di Brera, dove Filippo Tommaso Marinetti lo notò e chiese di conoscere subito l’autrice.

Olga venne invitata a esporre alla XXI Biennale di Venezia del 1938 ed entrò a far parte del movimento futurista come “aeropittrice-aviatrice futurista”, ribattezzata poi da Marinetti “Barbara dei colori”. Del suo incontro col fondatore del movimento futurista scrisse: «Non mi sfiorò neppure l’idea che Marinetti, in quel momento, stava catturando un caso nuovo nel futurismo, un caso che poteva far notizia: un’aviatrice, diceva lui; l’unica donna aviatrice del movimento futurista. Non capii che solo quello gli importava, e non come sapevo dipingere».

Il rapporto tra l’universo femminile e il futurismo è stato controverso. Marinetti nel Manifesto del 1909 dichiarava di voler «glorificare il disprezzo della donna», una donna concepita come serbatoio d’amore, donna veleno, donna ninnolo tragico, donna fragile. Alla dichiarata misoginia risposero però donne audaci, libere, che sfidarono l’uomo sul suo stesso terreno, scrittrici, pittrici, aviatrici e Valentine de Saint-Point che nel suo Manifesto della Donna futurista del 1912 aveva avuto la visione di una donna emancipata e indipendente.

Le sue opere di questo periodo sono trionfalistici racconti di vittorie militari nei cieli, dove tutto è in movimento, soggetti, colori, linee, prospettiva. Nel gruppo Olga conobbe Ignazio Scurto, giovane poeta, inventore, insieme con lo scultore e pittore Renato Di Bosso, della “cravatta futurista”, un’anticravatta di metallo, sostenuta da un leggero collare elastico. Si sposarono nel 1939 e per il romanzo del marito, L’aeroporto, Olga illustrò la copertina: la si può riconoscere nella protagonista Tulliola, moderna, indipendente, che ama volare, determinata e sicura di sé.

Al Broletto di Novara ebbe la sua prima mostra personale, seguirono partecipazioni alla Biennale di Venezia, alla Quadriennale di Roma e alla Mostra d’Oltremare di Napoli: in questo modo contribuì a risollevare le sorti di un movimento che cominciava a risentire della crisi, ma anche a provocarne la fine di lì a poco. Intanto Scurto venne richiamato in guerra, prima in Francia, poi in Russia, da dove tornò distrutto nel corpo e nello spirito, e morì qualche anno dopo. Olga nel frattempo scriveva novelle “rosa” che le permettevano di arrotondare gli introiti più dei quadri. Convinta pacifista, rifiutò l’esaltazione della guerra a opera dei futuristi, come aveva già fatto con il loro maschilismo, e prese le distanze dal movimento. In Battaglia aerea non c’è più il trionfo. Non ci sono più le grandi scene di guerra. Il soggetto ora è il decadimento delle prodezze aree, la morte: due arei duellano in volo, un altro precipita lasciando una scia scura e in basso un profilo di donna, forse proprio lei, Barbara, che assiste alla scena.

Poi, devastata dal dolore per un passato che, con ammirevole coerenza e lucidità, mai negò che l’avesse coinvolta nell’esaltazione dell’aggressività, aderì dapprima al Movimento femminista per poi approdare al Pacifismo. Per quindici anni non dipinse più, trovò lavoro come giornalista, collaborando con importanti testate, entrò nel mondo della moda e la Rai le affidò la conduzione di Stella Polare, una trasmissione radiofonica quotidiana di moda, che ha insegnato a vestirsi alle italiane del dopoguerra. Per grandi aziende, come la Bpd, la Montecatini e la Rodhiatoce, fu addetta alle relazioni pubbliche e contribuì al lancio di nuove fibre. Nei primi anni Sessanta fondò a Roma un’agenzia di stampa, la Telex-press, e organizzò Le trame d’oro, un premio legato alla formazione in campo stilistico e sartoriale. Partecipò con l’impronta della sua mano all’Albero della pace, dal 1986 al Museo della Pace di Hiroshima, una tela lunga dieci metri dove intellettuali, superstiti del disastro nucleare, personaggi italiani, come Sandro Pertini ed Enrico Berlinguer, e premi Nobel, tra i quali Rita Levi Montalcini, hanno lasciato l’impronta delle loro mani.
A questo punto ritornò al vecchio amore e si riavvicinò alla pittura. Grazie all’amicizia con il pittore svedese Gosta Liljestrom, si dedicò all’acquarello e sperimentò l’arte dei murales; intanto continuava a scrivere racconti per l’infanzia e testi per la radio. Organizzò anche eventi e sfilate per diverse sartorie. Dalla fine degli anni Settanta viaggiò molto: Unione Sovietica, Cuba, Giappone, Canada. Interessata alla creatività di bambini e bambine, nel 1978 partecipò al Festival internazionale dei Bambini a Yalta e nel 1979 a Cuba al Festival mondiale della Gioventù. Nel 1995 intervenne alle celebrazioni in onore di Marinetti, parlando delle donne futuriste, e nel 1998 partecipò al seminario sulle aeropittrici futuriste. Nel 2000 fu candidata al Premio Nobel per la pace. Fino alla sua morte ha continuato a dipingere. Ha lasciato un’autobiografia, Barbara a colori, un autentico percorso della memoria.
Ketty La Rocca (La Spezia, 1938-Firenze, 1976)
Ketty (Gaetana) La Rocca è stata esponente di primo piano della Poesia visiva, una corrente artistica che sperimenta la simultanea presenza di scrittura e immagini su una superficie. Ha avuto una vita breve ma intensa. Assistente in uno studio di radiologia, si trasferì a Firenze, un passo decisivo per la sua vita personale e artistica. Qui, all’interno del Gruppo 70, l’avanguardia artistica fiorentina, realizzò collage poetico-visivi, che operarono una profonda critica al sistema politico: utilizzando parole e immagini prese dai quotidiani, per attribuire loro nuovo significato, contestava la società dei consumi, dominata e condizionata dai media. Riflettendo sul linguaggio e accostando provocatoriamente immagini e parole, mostrò la mercificazione del corpo femminile nella società dei consumi, lo sfruttamento dell’immagine femminile operato da un atteggiamento sessista; in Vergine (1964) viene evidenziata la contraddizione tra il mito dell’illibatezza e la volontà di rendere il corpo femminile un oggetto di consumo; in Top secret (1965) è raffigurata una donna con labbra sensuali che ci guarda attraverso una griglia nera, una donna prigioniera, dietro le sbarre del maschilismo, che si difende con le armi della seduzione.


La Rocca ha denunciato non soltanto gli squilibri tra uomo e donna, ma anche quelli tra il Nord e il Sud del pianeta, accusando lo spirito colonialista ed egemonico delle potenze occidentali. In Bianco napalm, del 1967, l’immagine di una giovanissima vietnamita a piedi scalzi che porta sulle spalle un neonato è contrapposta a quella di un militare con in mano un’arma. Denunciando il silenzio della Chiesa cattolica verso la feroce guerra che si stava combattendo nel sud-est asiatico, unisce il bianco, simbolo di pace e di purezza, alle armi distruttive usate dall’esercito statunitense.
Dopo il 1968 il Gruppo 70 si sciolse e Ketty sviluppò un’arte personale, accostandosi alla Body Art, e concentrando la sua attenzione sul linguaggio dei gesti attraverso l’adozione di una pluralità di forme espressive come la fotografia, il libro, il video, la performance. Il gesto, a differenza della parola, non può essere simulato, il linguaggio del corpo non mente, perché parla anche contro la nostra volontà. Le mani divengono espressione di quello stesso significato del messaggio scritto: con le mani si comunica, si parla.
Nel 1971 esce In principio erat, un libro costituito dal montaggio di fotografie in bianco e nero di mani che compiono dei gesti quasi rituali, accompagnate a brevi testi e con l’introduzione di Gillo Dorfles. «Per quanto mi riguarda, ho tutti i difetti delle donne senza averne le qualità: un femminile negativo… le mani, per esempio, troppo tardi per le abilità femminili, troppo povere e incapaci per continuare ad accaparrare, è preferibile ricamare con le parole».


Dal volume prende le mosse il videotape Appendice per una supplica presentato nella sezione Performance e Videotape alla XXXVI Biennale di Venezia del 1972, in cui l’artista dà vita alle mani da lei ritratte nel libro. Il titolo trae le radici dalla tradizione religiosa: le protagoniste dell’azione sono, ancora una volta, le mani, le nostre “appendici” comunicative. Il video manifesta il forte interesse verso la sperimentazione tecnologica da parte dell’artista, e soprattutto un bisogno di sopravvivenza attraverso l’opera d’arte.

In Le mie parole e tu? (1971/75), dove protagonista è sempre il linguaggio delle mani che, oltre al volto, sono la parte più comunicativa del corpo umano, capaci di esprimere sentimenti, una specie di prolungamento fisico della parola, Ketty La Rocca riflette sulla difficoltà di essere donna e madre in un mondo, quello dell’arte, dominato dal genere opposto.

Tra gli ultimi suoi lavori le Riduzioni trasformano foto quotidiane, come foto di famiglia, un autoritratto o la faccia di un politico, un giornale, una cartolina, un manifesto cinematografico, riducendo le immagini a segni astratti.

Colpita da una grave malattia, pienamente consapevole che la sua fine era vicina, non ripiegò su di sé, dando un senso di universalizzazione al suo dolore. Nelle Craniologie (1975) arrivò a servirsi delle radiografie del suo cranio, attaccato dalla malattia che la stava consumando, in un collage con la sua mano e tutto intorno una serie di “you”, come una supplica al suo interlocutore.


Per valorizzare il suo lascito il figlio Michelangelo Vasta, professore di Storia Economica presso l’Università di Siena, ha scelto di collaborare con gallerie internazionali. Sue mostre postume sono state organizzate in Italia, Europa e Stati Uniti.
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Articolo di Livia Capasso

Laureata in Lettere moderne a indirizzo storico-artistico, ha insegnato Storia dell’arte nei licei fino al pensionamento. Accostatasi a tematiche femministe, è tra le fondatrici dell’associazione Toponomastica femminile.