Rosa Luxemburg, la donna oltre la rivoluzione

Ci sono storie che andrebbero raccontate dalla fine, dall’ultimo atto, dall’istante immobile e sospeso che precede la chiusura del sipario. 
Sono semi, queste storie, germogli non ancora spuntati che hanno il destino di servire nel futuro, generazione e generazione, ancora e ancora, preziosi come le provviste inaspettate in un inverno rigido e interminabile.
La fine di questa storia, la zolla di terra che copre l’ultimo scampolo di sole è il 15 gennaio 1919. Siamo a Berlino. Un uomo e una donna vengono prelevati da squadracce paramilitari nel quartiere di Wilmersdorf e condotti all’Hotel Eden. Qui vengono interrogati, torturati e uccisi. Lui, fucilato; lei, picchiata con il calcio delle armi e poi finita con un colpo alla testa; tutti e due sono poi gettati nelle fangose e gelide acque del Landwehrkanal.
I nomi di questo uomo e questa donna sono Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg. 
Entrambi cittadini tedeschi. Entrambi fondatori della Lega di Spartaco — lo Spartakusbund— il movimento della sinistra radicale marxista sorto in Germania nel 1916 e nucleo embrionale di quello che sarà poi il Kommunistische Partei Deutschlands, il Kpd. Entrambi radicali, in un mondo ancora traballante e impolverato da ciò che ne restava dopo la mattanza della Prima guerra mondiale. Entrambi rivoluzionari, decisi a cambiare le vecchie rovine sulle quali, ormai, non poggia più nulla, se non idee e voci che il movimento della storia, orizzontale e verticale, sta cacciando via. Entrambi in prima fila, sul campo, nella regìa e nelle strade, affinché alle parole seguano azioni che mostrino quanto puro e reale sia il loro impegno. 

Rosa Luxemburg durante un comizio

Ma lei è anche altro. È talmente tanto altro che le definizioni sembrano contraddirla perché essa stessa pare contraddirsi, pur rimanendo sempre salda e ferma nei princìpi e nei valori che sorreggerà e che la sorreggeranno per tutta la vita. Sarà indipendente e militerà in un partito; esprimerà le sue idee chiaramente e convintamente e non penserà mai di organizzare queste stesse idee in una forma sistemica; sarà una rivoluzionaria marxista e sarà una convinta pacifista nello stralcio di secolo che pare essersi dimenticato il silenzio di grida e armi; lotterà, contro i suoi compagni di lotta, per difendere la sua autonomia di pensiero e i suoi sentimenti di totale amore verso il mondo. 
Comunque la si osservi, la si legga e la si conosca, Rosa Luxemburg ci appare come una sfumatura della tinta ben più complessa e preziosa che è stata. Nasce a Zamość, una cittàdella Polonia sudorientale, nel voivodato di Lublino, il 5 marzo del 1871. La sua famiglia è di fede ebraica ashkenazita, agiata, con il padre commerciante di legname, di idee liberali, e la madre, donna religiosa e profondamente istruita che la indirizza allo studio della Torah e alla lettura dei grandi classici delle letterature polacca e tedesca. 

La sua infanzia, dunque, vive e respira già di altro, di libri e di cultura. E la piccola Rosa sembra raccogliere a piene mani questa compresenza e commistione: impara a leggere e a scrivere in tenera età e da autodidatta, e darà sempre alla scrittura una funzione di assoluta preziosità, tanto che, in una lettera del 23 giugno 1898 indirizzata a Robert Seidel, afferma: «Sono scontenta della maniera in cui la maggioranza dei membri del Partito scrive i propri articoli. Sono tutti così convenzionali, così legnosi, così stereotipati. […] Quando scrivo, mi impongo di non dimenticare mai di guardarmi dentro e di entusiasmarmi per quello che sto dicendo».
La politica la accompagna praticamente sempre: già nel 1884, mentre frequenta un liceo femminile di Varsavia, si avvicina al gruppo clandestino rivoluzionario Proletariat e, per sfuggire all’arresto dei suoi membri, nel 1889 attraversa il confine austro-ungarico nascosta in un carro di fieno. Si trasferisce quindi in Svizzera e a Zurigo frequenta prima la facoltà di filosofia e poi quella di giurisprudenza, nel 1892, dove si laurea nel 1897 con la tesi Die industrielle Entwicklung Polens (Lo sviluppo industriale della Polonia).
Accanto a questi studi, però, Rosa Luxemburg segue anche corsi di matematica e soprattutto — di botanica. 
E così sarà per il resto della sua vita. Alle barricate e alle piazze affianca l’amore e il bisogno fisico della natura, anche se questa le mostra quanto l’essere umano sia niente al suo confronto: «Credo che al cospetto del mare, di fronte alla sua perpetua, immutabile, sublime indifferenza non si possa che esseri colti dallo sconvolgente sentimento della propria nullità. […] È il nemico della vanità umana che è convinta di essere qualcosa e d’improvviso invece collassa nel nulla». 
Alle gonne infangate dell’eterno cammino verso uguaglianza e giustizia, affianca il desiderio di vedere i propri vestiti sporchi semplicemente di colori, olii e pastelli: «Ah, Dudu, se per due anni potessi dedicarmi solo alla pittura! Mi divorerebbe completamente. Non andrei a lezione da nessun pittore e non chiederei neppure consigli, vorrei imparare solo dipingendo e facendo magari qualche domanda a te di tanto in tanto. Ma questi sono sogni vani, non posso farlo. La mia miserabile pittura non serve a nessuno, e invece dei miei articoli le persone hanno bisogno». 
Alle sbarre serrate di una prigione contrappone il senso di libertà che sente invaderla al solo pensare alla vita, al fatto di esserlo ancora, viva, a ciò che fuori da quelle nere mura di costrizione la sta aspettando: «Me ne sto qui, ad esempio, in questa cella oscura, sopra un materasso duro come la pietra, intorno a me nell’edificio regna come di regola un silenzio di tomba, sembra di essere rinchiusi in un sepolcro: attraverso la finestra si disegna sul soffitto il riflesso della lanterna accesa l’intera notte davanti al carcere. Di tanto in tanto si sente, cupo, lo sferragliare di un treno che passa in lontananza; oppure, più vicina, proprio sotto la finestra, la guardia che si schiarisce la voce e per sgranchirsi le gambe fa lentamente qualche passo con i suoi stivaloni. La sabbia stride in modo così disperato, sotto quei passi, che nella notte scura e umida si sente risuonare tutta la desolazione e lo sconforto dell’esistenza. Me ne sto qui distesa, sola, in silenzio, avvolta in queste molteplici e nere lenzuola dell’oscurità, della noia, della prigionia invernale – e intanto il mio cuore pulsa di una gioia interiore incomprensibile e sconosciuta, come se andassi camminando nel sole radioso su un prato fiorito. E nel buio sorrido alla vita, quasi fossi a conoscenza di un qualche segreto incanto in grado di sbugiardare ogni cosa triste e malvagia e volgerla in splendore e felicità». 

È una donna libera, Rosa Luxemburg, indomita, mai remissiva, che sa andare anche contro i suoi stessi compagni quando si sente spodestata del proprio ruolo, della parola, della propria personalità: «Devo ammettere che a Jena ero furiosa con lei perché si era preso la briga di volermi difendere e la sua strategia tutta sbagliata mi ha causato più danni che altro. Voleva difendere la mia morale e per questo ha sacrificato la mia posizione politica. Ha fatto l’esatto contrario di quello che doveva. La mia morale non ha bisogno di alcuna difesa» (lettera a Konrad Haenisch, 2 dicembre 1911). 

Non ha mai sopportato l’addomesticazione del pensiero femminile, né da parte del partito né da parte degli uomini che la affiancano nella sua vita. Ecco cosa scrive a Leo Jogiches, conosciuto in Svizzera nel 1890: «Tu non ti accorgi affatto che tutta la tua corrispondenza ha un carattere disgustoso: il tono generale è quello di una predica noiosa e pedante, come le lettere del maestro a un caro alunno… Questa è la conseguenza di un tuo vecchio vizio che ha rovinato completamente la nostra convivenza, cioè il tuo vizio di far da mentore, per cui ti senti continuamente chiamato a insegnarmi e a fare sempre e in tutto la parte del mio maestro… Di fronte a questo, non posso che limitarmi a scrollare le spalle».
Il riscatto non lo cerca soltanto per le classi povere e sfruttate, ma anche per la natura in tutte le sue forme. Difende le ragioni degli ultimi e delle ultime, che sia in una cella o su una barricata. Combatte per cancellare brutture e orrori. E sa godere del più piccolo segnale che l’esistenza che le respira intorno le manda da cogliere. Pare vedere nel fermo immagine del carcere un sipario pronto a schiudersi su uno spettacolo sempre nuovo. Fa della gioia un’arte, di essa gode e si stupisce, e la mangia e la assapora, e sa, vuole, che essa sia per tutti e tutte. Si batte per la bellezza. Per la verità, che è bellezza. Per l’uguaglianza, che è bellezza. Per la giustizia, che è bellezza. Per la bellezza fine a sé stessa, che riesce a pareggiare — forse e in una qualche maniera­ ­ i conti che, nel calcolo del capitalismo e della guerra, non tornano mai.

È un’aquila, così come Lenin l’ha definita, perché dell’aquila ha lo sguardo dall’alto, lo slancio di reni che le permette di volare dal battuto impervio e insanguinato della strada alle vette pulite e fresche, lì dove c’è ossigeno e fiato profondo. Eppure, anche lei che si indica come una cinciallegra — tanto da chiedere a una sua amica che sulla propria lapide sia inciso solo zvì zvì, il verso di questo piccolo uccellino — non sbaglia. Perché questo passero è intelligente e intraprendente, chiacchierone ed esploratore, e prezioso, poiché avverte col suo canto le persone di un pericolo imminente, prevedendo così il futuro. E cos’è una rivoluzionaria se non questo? E cosa fa una donna che cerca, sa, trova la felicità ovunque, se non questo?
Rosa Luxemburg spende la propria vita nel tentare di combattere le sofferenze altrui, mentre lei, le proprie, non le esibisce mai, celandole nel pudore e nella speranza. Eppure, per la crudele ironia di cui a volte la vita si ammanta, le barbarie che soffre per mano dei suoi assassini sono invece ben visibili sul suo corpo martoriato. 
Ci sono storie che devono essere raccontate dalla fine, dall’ultimo atto, dall’istante immobile e sospeso che precede la chiusura del sipario.
Di Rosa Luxemburg, quel 15 gennaio 1919 non rimane che una scarpa, raccolta da mano anonima e misericordiosa, e salvata dalla fanghiglia che la stava ricoprendo. 
Quella scarpa ha bloccato l’ingranaggio del sipario, ha permesso al sole di arrivare e far germogliare il seme che si è provato a far seccare per sempre. «Vede, dappertutto è la felicità, se ne può trovare e raccogliere un po’ a ogni angolo della strada, e di continuo ci viene ricordato che la vita è bella e ricca».

***

Articolo di Sara Balzerano

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Laureata in Scienze Umanistiche e laureata in Filologia Moderna, ha collaborato con articoli, racconti e recensioni a diverse pagine web. Ama i romanzi d’amore e i grandi cantautori italiani, la poesia, i gatti e la pizza. Il suo obiettivo principale è quello di continuare a chiedere Shomèr ma mi llailah (“sentinella, quanto [resta] della notte”)? Perché domandare e avere dubbi significa non fermarsi mai. Studia per sfida, legge per sopravvivenza, scrive per essere felice.

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