La settima lezione del corso di eco-teologia del Cti è presentata dalla professoressa Donata Horak, docente di Diritto canonico presso lo studio teologico Alberoni di Piacenza e docente di Religione cattolica presso un Istituto secondario superiore.
Storicamente diritto e teologia non sono sempre andati d’accordo, e una lezione di Diritto canonico potrebbe sembrare estranea in un corso di eco-teologia. Tuttavia, come argomentato da Horak, il tema della Legge naturale è in grado di connettere il diritto a tutte le altre materie e tematiche.
Iniziamo dai racconti della Creazione, o meglio Contro-Creazione. Giobbe 3, 1-21: «Dopo, Giobbe aprì la bocca e maledisse il suo giorno; prese a dire: “Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: ‛È stato concepito un uomo!’ Quel giorno sia tenebra e non lo ricerchi Dio dall’alto, né brilli mai su di esso luce. E perché non sono morto fin dal seno di mia madre e non spirai appena uscito dal grembo? Oppure come aborto nascosto, più non sarei, o come i bimbi che non hanno visto la luce. Perché dare la luce a un infelice e la vita a chi ha l’amarezza nel cuore, e quelli che aspettano la morte e non viene, che la cercano più di un tesoro…”». Dal testo appare chiaro che Giobbe senta di aver subito un’ingiustizia che ha completamente messo sottosopra la sua visione del mondo, al punto da fargli desiderare l’annientamento della vita e di tornare alle tenebre che hanno preceduto la Creazione, una condizione sentita come preferibile a quella che lui sta vivendo. Il tema della giustizia è molto caro alla tradizione giudaico-cristiana, ed è qui che la legge e il diritto entrano in gioco cercando un equilibrio fra interpretazioni mortifere e creative della fede. Il Giobbe dei versetti sopracitati ha sempre vissuto con una logica retributiva: il bene porta privilegi e fare il male porta punizioni, e la legge è ciò che guida le persone al bene. Questa logica si scontra poi con la realtà, dove non sempre i buoni vengono premiati e i cattivi condannati, e da qui la rabbia di Giobbe, che più volte viene visto inveire contro Dio e lamentarsi dell’assenza di giustizia; un sentimento certo a molti e molte di noi familiare, e che esprime anche il desiderio di un Dio che sia un qualcosa di più di un distributore di premi e punizioni. È qui che Dio si presenta come colui che tiene in vita il Creato, fragile e amabile e da lui curato nei minimi particolari. Giobbe scopre così l’Albero della Vita, e può riconciliarsi con Dio e trovare di nuovo il desiderio di vivere.

Che ruolo può avere la Legge di fronte al Dio della Vita, dove la logica retributiva non può più essere applicata? Perché seguire la Legge quando c’è l’amore di Dio? Una domanda di non facile risposta: molte correnti nel Cristianesimo hanno espresso sentimenti avversi al diritto, argomentando che la Resurrezione abbia liberato le/i credenti dalle leggi terrene e che a renderci giuste/i è la fede e non la Legge. Questo emerge da alcune lettere di Paolo, il quale però in altri contesti sembra andare contro questa visione: in Romani 3,31 afferma espressamente che la fede conferma la legge, e in Galati 5,14 dice che amare gli altri come sé stessi permette di compiere la legge di Cristo. Romani 3, 21-22 complica ulteriormente il quadro: «Ora invece, indipendentemente dalla Legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla legge e dai profeti; giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono».
Da un lato la Torah, la Legge dei profeti che ci guida alla vita, e dall’altra il Moralismo autogiustificante. Paolo non parla mai di “Legge naturale”, anche se è nei suoi scritti che si trova l’origine del significato dell’espressione: in Romani 1, 18-22, afferma che anche coloro a cui non è stata portata la Rivelazione possono conoscere Dio attraverso le sue opere e contemplando la Creazione, che rende manifesta la Legge già presente dentro ognuna/o di noi. “Legge naturale” non compare in realtà in nessuna delle Scritture, è un’espressione coniata da Tertulliano che ebbe in seguito fortuna mano a mano che il Cristianesimo si espandeva nell’Impero Romano. Quello che ricorre nelle Scritture è un ordine costituito da Dio da intendere sia in modo statico – una Creazione prevedibile e ferma con una Legge che, se seguita, ci porta sulla strada della virtù – o in modo dinamico – Dio si impegna costantemente per mantenere in vita una creazione fragile e contradditoria, che partecipa con empatia alle gioie e alle sofferenze delle sue creature.

È con l’introduzione del concetto ellenistico di “natura” nella teologia che ci avviciniamo all’espressione che oggi conosciamo. Agostino nel Contra Faustum afferma che la Legge eterna (lex aeterna) è la volontà di Dio che comanda di “conservare l’ordine naturale” (un’espressione col senno di poi abbastanza ambigua) ed è il suo piano immutabile per il governo del mondo. La Legge eterna lascia la sua impronta sulla Legge naturale (lex naturalis), riflesso della mente di Dio, comprendente sia l’Antico e il Nuovo Testamento sia, sorprendentemente, la ius gentium, la branca del diritto romano che gestisce la relazione fra i cittadini e i popoli che non hanno la cittadinanza romana. Infine, c’è la Legge temporale (lex temporalis) prodotta dagli umani e che deve armonizzarsi con la Legge naturale per essere considerata valida.
Questa classificazione durerà più di un millennio fino a Tommaso d’Aquino. Egli predilige la ratio alla voluntas di Dio: la giustizia è tale perché qualcosa è giusto in sé e corrisponde al logos divino, che gli esseri umani possono riconoscere tramite la ragione. La sua definizione di Legge è passata alla storia: «ordinatio rationis ad bonum commune ab eo qui curam communitatis habet promulgata», ossia un modo di disporre della ragione per il bene comune da parte di chi ha la responsabilità della cura della comunità. “Ragione” non è qui da intendere in senso logico-matematico ma come ragionevolezza, sensatezza. La Legge eterna per Tommaso è il logos di Dio, e la Rivelazione (Antico e Nuovo Testamento) è per la salvezza soprannaturale; sul piano terreno la Legge eterna si riconosce nella Legge naturale, da cui deriva la Legge umana, prodotta per deduzione dalla partecipazione della creatura razionale alla legge eterna; essendo dotate/i di ragione possiamo produrre diritto pure nelle questioni più irrilevanti, perché essa ci è stata data anche per essere usata in modo creativo. Una ragione che si allinea al logos di Dio è sempre orientata al bene comune, e il sistema così creato sarà armonico.
Nel XVI secolo si rompe l’unità delle Chiese, e con essa della Legge. Lutero si riconnette al filone antigiuridico affermando che la Chiesa non ha bisogno di leggi e non può produrne essendo una realtà spirituale – una posizione che influenzerà il positivismo giuridico, dove alla Chiesa viene disconosciuta qualunque autorità legislativa. Di contro, la Chiesa di Roma enfatizza il suo ruolo come mediatrice fra Legge umana e Legge naturale: perfetta legislatrice, la legge che promulga è valida in quanto è valida l’autorità che la produce e sarà sempre per il bene di tutti i sudditi, perpetua, comune e sufficientemente promulgata. Ciò che è arrivato a noi oggi da questo scisma è la questione di come la Legge divina possa entrare nell’ordinamento storico. Sono state proposte varie soluzioni per armonizzare l’umano e il divino, con risultati scarsi:
- Teoria della canonizzazione: è il legislatore, e quindi l’autorità umana, che ha il compito di tradurre la Legge divina in norme canoniche; il compito sarebbe quindi affidato alle Chiese, che tuttavia non possono dare una interpretazione univoca a causa delle divisioni interne.
- Teoria dell’istituzione: si distinguono le norme di comportamento, che necessitano di canonizzazione, dalle norme istitutive e competenza, immediatamente vigenti e nelle quali Dio ha distribuito i doveri; nel diritto divino ci sono però anche norme di comportamento, come mostrano i Dieci comandamenti, che non possono quindi essere ricondotte all’umano.
- Teoria degli ordinamenti paralleli: diritto divino e diritto umano procedono di pari passo, il primo perfetto, interviene dove il secondo è lacunoso; in questo caso non solo viene proposto un dualismo che non fa interagire i due soggetti, ma fa del diritto divino un supplemento alla legge umana invece di farne il fondamento.
- Teoria della positivazione: la legge divina non richiede alcuna formalizzazione, è vigente quando la coscienza ecclesiale la recepisce come cogente; anche se è vero che questa teoria è dimostrabile dallo sviluppo nell’interpretazione dei Vangeli, non si riconosce però l’azione del diritto divino per far progredire la coscienza anche negli aspetti che ancora non ha percepito.
Nessuna di queste teorie, così come molte altre, risulta efficace: per poter comprendere tale relazione bisogna abbandonare qualunque dualismo e ragionare in termini di circolarità ermeneutica fra elemento divino ed elemento umano/naturale che entra in ogni aspetto della vita, anche nella produzione di leggi: la Legge naturale è un principio che ispira e sfida le leggi di una comunità in un dato momento storico per spronarne la creatività.
Nel nostro tempo postmoderno queste interpretazioni possono suonare altisonanti, tuttavia sono giunte fino a noi e ancora ci influenzano: molte/i sono convinti che la Legge naturale è un ordine precostituito che ci è stato dato nella Rivelazione nei suoi contenuti prescrittivi (per esempio: se “maschio e femmina li creò” non c’è posto per alcuna evoluzione dei generi che non corrisponda al binarismo sessuale); esistono ancora filoni antigiuridici che sono insofferenti a qualunque forma istituzionale, convinti che le/i fedeli non abbiano bisogno di alcuna legge umana per poter vivere; la Chiesa si considera ancora l’unica autorità che può tradurre la Legge naturale, e usa la Legge divina per giustificare la irriformabilità di alcuni istituti – come estendere il matrimonio anche a coppie che non siano un uomo e una donna.
Con l’era moderna viene introdotta l’idea che la legge abbia anche il compito di promuovere i diritti oltre che delineare i doveri del soggetto giuridico. Inizia qui un rapporto complesso e problematico fra la Chiesa cattolica e il tema dei diritti umani (le Chiese riformate si mostrarono più pronte ad accettare i cambiamenti della modernità): in una prima fase, dalla Rivoluzione francese alla Dichiarazione dei diritti universali dell’uomo del 1948, la Chiesa negò in modo assoluto qualunque validità dei diritti umani e anzi si prodigò attivamente per osteggiarli, ritenendo la libertà religiosa teologicamente pericolosa in quanto metteva in pericolo le anime e che non ci fosse alcun fondamento per essi nella Creazione.
La svolta fu portata da Giovanni XXIII che nella enciclica Pacem in terris riconosce la Dichiarazione del ’48, aprendosi a vari cambiamenti; il Concilio Vaticano II produce un nuovo codice di diritto canonico nel 1983 dove è espresso chiaramente che la Legge promuove i diritti fondamentali, promulgando anche lo Statuto dei diritti e dei doveri dei christi fideles, un canone che venne accettato pure da altre Chiese in cui si dichiara l’uguaglianza fra tutti i battezzati e le battezzate – un principio che tuttavia non sempre viene rispettato, nel qual caso si fa ricorso alla Legge divina per giustificare evidenti ineguaglianze; guarda caso questa viene usata soprattutto nelle questioni di genere, come per il divieto del ministero femminile.
Dagli anni Novanta si assiste a un atteggiamento di maggiore critica verso i “nuovi diritti”, ossia i diritti sessuali, che superano il binarismo sessuale in favore di una più ampia definizione di genere, e i diritti riproduttivi e di salute riproduttiva, ossia l’aborto, l’uso di anticoncezionali e la fecondazione in vitro.
La Chiesa è molto prudente nell’accoglierli: nel 2019 il Vaticano firmò il documento redatto alla riunione dei ministri dell’educazione del Consiglio d’Europa, accompagnandolo con una dichiarazione in cui intendeva considerare i termini “genere” e “stereotipi di genere” presenti nel testo come relativi esclusivamente al binario maschio-femmina.
Due le motivazioni di questo atteggiamento: ricorso a un’interpretazione della Legge naturale come statica ed immutabile che blocca l’evoluzione dei nuovi diritti; o critica all’eccessiva individualizzazione dei nuovi diritti, visti come appannaggio delle società ricche che le impongono alle altre, o come pura ideologia. Papa Francesco ha portato avanti una Chiesa che non vuole più pretendere di influenzare le leggi del mondo; il Vangelo oggi si confronta con la cultura dominante, dove la Legge naturale va intesa in modo dinamico ed inclusivo e la cui affermazione passa in secondo piano rispetto a gesti e linguaggi più evangelici.
È importante che in questo dibattito non manchi la voce delle donne, che non siano solo gli uomini cattolici a parlare soprattutto per quanto riguarda il corpo femminile. I nuovi diritti dovrebbero essere sottoposti a un discernimento serio nell’ottica del bene comune: la loro affermazione lacera le società e divide le persone o può creare le condizioni per una comunità più pacifica e accogliente? Il dibattito deve qui tenere conto del bene comune più che della Legge naturale. Si riprenda dunque la terza parola del motto della Rivoluzione francese: “fraternità” è forse il concetto che è stato meno sviluppato da allora, e le Chiese possono sottoporre i nuovi diritti al vaglio della comunità in virtù dei legami nati dalla fede in Cristo. Per rispondere alle sfide dei nuovi diritti, si deve pensare che il proprio diritto inizi dove inizia quello dell’altro, non dove finisce.
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Articolo di Maria Chiara Pulcini

Ha vissuto la maggior parte dei suoi primi anni fuori dall’Italia, entrando in contatto con culture diverse. Consegue la laurea triennale in Scienze storiche del territorio e della cooperazione internazionale e la laurea magistrale in Storia e società, presso l’Università degli Studi Roma Tre. Si è specializzata in Relazioni internazionali e studi di genere. Attualmente frequenta il Master in Comunicazione storica.