Il 16 dicembre ricorre la seconda Giornata nazionale dello Spazio. Come informa Asi, l’Agenzia spaziale italiana, questa celebrazione, istituita nel 2021, nasce per sensibilizzare e informare «sui contributi che la scienza e la tecnologia applicate allo Spazio portano al miglioramento della condizione umana e a far comprendere i benefici che dalle attività spaziali arrivano nella vita di tutti i giorni». Benefici che includono, ad esempio, ritorni concreti in termini di progresso della ricerca in campo medico, crescita tecnologica ed economica, sviluppo di pratiche di sostenibilità anche nel campo delle coltivazioni agricole.
Lo scorso aprile, oltre a Samantha Cristoforetti, abbiamo visto andare nello spazio anche l’olio extravergine di oliva come oggetto di studio. Perché? Per iniziare a valutare l’impatto che le condizioni ambientali spaziali quali microgravità e radiazioni avranno, oltre che sulle persone, anche sulle caratteristiche nutrizionali e fisico-chimiche degli alimenti. «Le tecnologie e le soluzioni innovative a sostegno della vita umana nello Spazio durante le missioni di lunga durata su Luna e Marte – spiega Asi – coinvolgono anche l’alimentazione» dei futuri esploratori spaziali e questo spiega il progetto Evoo (Exrta virgin olive oil) messo in campo e in orbita da Asi. Per la precisione sono in tutto quattro i campioni di olio extravergine italiano inviati nello Spazio, oli monovarietali, espressione di quattro cultivar tra le più interessanti del nostro Paese: Moraiolo, Carolea, Itrana e Coratina.

Di fatto, occorre studiare come fornire cibo fresco, in modo sostenibile, agli equipaggi che si troveranno a dover affrontare lunghe permanenze e viaggi oltre il nostro pianeta. «Il futuro dell’esplorazione umana dello Spazio – spiega ancora Asi dal suo sito web – passa inevitabilmente per la capacità di produrre cibo in situ, cioè nel luogo dell’insediamento. Si moltiplicano gli esperimenti e i progetti di studio sulle coltivazioni nello Spazio, dagli orti sulla Stazione spaziale internazionale alle serre in ambienti estremi».
Anche tre piccole piante di vite dei biotipi Sangiovese, Aglianico e Nebbiolo sono state consegnate all’Asi, lo scorso luglio, da Fondazione italiana sommelier, insieme a sei bottiglie dei vini che con esse si realizzano. Due bottiglie di annate differenti di vini unanimemente riconosciuti espressioni eccellenti della cultura enologica italiana, sono state offerte da tre cantine. Si tratta di Biondi-Santi, con il Brunello di Montalcino Riserva 2006 e 2015; Feudi di San Gregorio con il Taurasi Piano di Montevergine Riserva 2012 e 2015 e Gaja con il Barolo Sperss 1988 e 2017.
I campioni dei vini e barbatelle, a oggi ancora in attesa di essere inseriti in un progetto futuro, andranno sulla Iss, come per l’olio, per farsi studiare nelle modificazioni che potrebbero subire a seguito della loro permanenza nello spazio. Per le piantine di vite, presumibilmente, si studieranno gli effetti delle radiazioni sulla crescita. In dosi minime, infatti, sappiamo che le radiazioni favoriscono lo sviluppo dei vegetali mentre gli effetti dell’assenza di gravità, al contrario, incidono negativamente, con le piante che ne risentono sia per la parte che riguarda la crescita dell’impianto radicale, sia per quella che riguarda i moti convettivi, determinanti per lo sviluppo fogliare.
Sulla Iss sinora cibo e rifornimenti – oltre alle dotazioni personalizzate portate da ciascun/a astronauta al momento dell’imbarco – sono sempre stati consegnati da astronavi cargo con cadenza regolare. Tuttavia, nel caso di lunghe permanenze nello spazio, diventa necessario osservare e comprendere come i fattori di assenza di gravità e presenza radiazioni, influiscano sui meccanismi molecolari delle sostanze organiche. Questo perché l’ipotesi di prossime lunghe future permanenze nello spazio avanza anche grazie alla Missione Artemis 1, partita lo scorso 16 novembre dal centro spaziale Kennedy in Florida. Un progetto per fare nuove scoperte e «imparare a vivere e lavorare oltre i confini del nostro pianeta» come ha spiegato in occasione del lancio, il direttore dell’Asi.

Quando per le missioni nello spazio siderale si programma a lungo termine, i temi del cibo e della sua autoproduzione e conservazione diventano giocoforza centrali. Come segnala la professoressa Angela Rizzo (Università degli studi di Milano Statale) nel corso del seminario dal titolo Spazio e ricerca biomedica del 15 novembre 2022, si rende soprattutto necessario impostare l’analisi su quei meccanismi che negli alimenti potrebbero rappresentare “un problema dal punto di vista della tossicità”.
Il tema è noto da tempo e ben lo riassume una ricerca dell’Enea: «una delle problematiche da affrontare per le missioni spaziali di lunga durata, lontane dall’orbita terrestre, è legata all’impossibilità di fare affidamento solo sui costanti scambi con la Terra per garantire la sussistenza degli astronauti. Infatti, se sul nostro pianeta diventa sempre più impellente il cambio di paradigma economico-ambientale, impostando i consumi su modelli basati sul riciclo delle risorse, in ambito spaziale questo requisito diventa irrinunciabile. Cibo, acqua e aria devono poter essere rigenerati e riciclati (almeno in parte) per garantire la sopravvivenza degli equipaggi in missione».
Si tratta, insomma, di adottare soluzioni che consentano agli astronauti di diventare astro-agricoltori, per garantire in maniera autosufficiente la produzione di cibo fresco per la propria e l’altrui sussistenza, coltivando in serre spaziali e con luci artificiali.
Ancora nel corso del seminario del 15 novembre, la ricercatrice Giovanna Aronne della Uni Napoli Federico II, evidenzia uno dei vantaggi che la ricerca scientifica nello spazio restituisce all’economia agricola a terra: l’ottimizzazione delle risorse e il risparmio di acqua. Coltivare nello spazio, infatti, induce – letteralmente – a dover comprendere in quanti e quali spazi farlo, un aspetto che ha portato allo sviluppo di una «agricoltura tridimensionale» ovvero che si espande in verticale.
Sono diversi gli esperimenti di successo che hanno già testato sistemi di coltivazione in situazioni climatiche terrestri estreme, dai deserti di sabbia a quelli di ghiaccio. Tra questi, il progetto Eden ISS di German Aerospace, per il trasferimento di conoscenze da terra a spazio (il cosiddetto spin- in), ha prodotto nella stazione Neumayer III in Antartide, un totale di 268 chili di verdure in nove mesi e mezzo, coltivando meno di tredici metri quadrati di serre-contanier e con illuminazione a luci led. Una dimostrazione, a terra, delle tecnologie possibili per la produzione alimentare sicura nello spazio.
In un’intervista per il portale della Nasa, la dottoressa Gioia Massa sottolinea che «più gli esseri umani si allontanano dalla Terra, maggiore è la necessità che sappiano coltivare piante per il cibo, il rinnovo dell’atmosfera e il benessere psicologico». Massa, alla Nasa dal 2013, è a capo del gruppo scientifico per i programmi Veggie, un sistema di produzione alimentare biorigenerativa in condizioni di microgravità, sperimentato anche sulla Iss in una teca della misura di un trolley.

Gli organismi vegetali, dunque, si dimostrano fondamentali nel supportare la vita umana nello spazio, sia per il sostentamento psico-fisico, sia per rigenerare aria e acqua in un sistema interconnesso basato su recupero, trasformazione e riutilizzo. In altre parole, essi rappresentano la chiave di volta di «ecosistemi artificialmente controllati, basati sull’interazione, in cui ogni componente biologica utilizza come risorsa i prodotti di scarto del metabolismo degli altri».

Per questa pratica quasi rivoluzionaria che si colloca tra scienza e fantascienza, abbiamo visto di recente scomodarsi anche l’iconica serie televisiva Star Trek Discovery, che la rende esplicita in un episodio della terza stagione quando l’Ammiraglio Vance della Flotta stellare, in un sagace dialogo con la nemica Osyraa, le spiega come il cibo che lei sta assaggiando (nella fattispecie una mela) derivi proprio da questa particolare forma di riciclo…

Se arriva a sdoganare questo tema anche la più gettonata e preveggente serie Tv che dagli anni Sessanta – e con decenni di anticipo – propone al suo pubblico tecnologie iper-avanzate (vedi il comunicatore pieghevole tascabile o l’auricolare bluetooth della Tenente Uhura visti nella serie classica degli anni Sessanta), potremmo davvero trovarci di fronte a procedimenti abbastanza semplici da attuare. Almeno in teoria. Mentre la serie Discovery ci parla dagli anni Tremila, le tecnologie attualmente allo studio nella nostra linea temporale, puntano al recupero di fertilizzanti dalla biomassa di scarto degli astronauti: acqua, rifiuti organici, residui alimentari, parti vegetali non commestibili, reflui umani e carta, diventano materia ripulita e rigenerata grazie all’azione pilotata di batteri, funghi e insetti. Una materia che una volta mischiata a suoli extraterrestri privi di qualsiasi sostanza organica, potrebbe, ibridandoli, renderli da infertili a coltivabili. Potrebbe.
La valorizzazione economica di conoscenze e tecnologie acquisite e sviluppate grazie a questi studi, come sottolineato anche nel corso della tavola rotonda a margine del convegno Asi del 15 novembre, trova applicazioni non solo in agricoltura ma in moltissimi altri campi. Tecnologie realizzate per l’ambito spaziale, una volta riportate in ambito terrestre (il cosiddetto spin-out), porteranno a un progresso dinamico capace di aprire nuovi mercati e orizzonti di business, nuove ricadute nei campi delle telecomunicazioni e, solo per dirne alcune, della bio-medicina, della ricerca oncologica e della medicina riabilitativa.
Integra un quadro già ampio anche il satellite iperspettrale Prisma (sempre dell’Asi), deputato al controllo ambientale che, osservando la terra attraverso un sistema ottico integrato di infrarossi e lenti fotografiche, realizza misurazioni che forniscono «un contributo fondamentale al monitoraggio dell’inquinamento e dei cambiamenti ambientali e supportano la gestione delle risorse naturali e delle emergenze».
In un periodo in cui l’umanità si trova a un bivio cruciale, in lotta per arginare il dilagare delle guerre, delle conseguenze dei cambiamenti climatici e delle povertà e per trasformare modi di pensare stereotipati e antiquati in azioni di valore, perché non sognare un futuro comune tra le stelle? Il potere dell’immaginazione e dell’intuizione unito a quello della fisica, della matematica e dell’astrobiologia, dimostra che dalla fantascienza alla scienza il passo è corto, che il nostro futuro è già qui e che lo Spazio, forse, per il progresso umano è davvero l’«ultima frontiera».
In copertina: Stazione Eden in Antartico.
Per saperne di più:
l’articolo di Angiola Desiderio, Luca Nardi, Eugenio Benvenuto del Laboratorio Biotecnologie – ENEA si può leggere qui: Sopravvivere nello spazio: le biotecnologie per la ‘Space Economy’ – EAI (enea.it);
i risultati del progetto Eden ISS di German Aerospace presentati nel 2019 si possono leggere qui: https://eden-iss.net/
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Articolo di Eva Panitteri

Sono nata a Genova da una famiglia girovaga. Amo viaggiare alla scoperta di sapori, profumi, atmosfere e territori. Lettrice seriale, giornalista pubblicista, autrice, appassionata di Food & Wine ed esperta di questioni di Genere, scrivo di temi e passioni che sono le mie identità.