Nei precedenti articoli di questa serie abbiamo affrontato i temi del ciclo mestruale e della verginità, e di come essi siano considerati culturalmente tappe fondamentali: il menarca segna l’inizio dello sviluppo della donna e della sua fertilità, e quindi l’inizio della ricerca di un buon partito per lei; la verginità, più o meno importante a seconda dell’ambiente di riferimento, garantisce che la prole nata nella legalità del matrimonio sarà solo dell’uomo che per primo giacerà con lei. L’evento del menarca e il mantenimento dell’illibatezza sono le principali preoccupazioni dei genitori quando nasce loro una figlia: fino a non molto tempo fa era fondamentale darle un’educazione per farla diventare una “degna signorina”, soprattutto se appartenente alle classi più agiate; avvenuto il primo ciclo bisognava trovarle un buon marito per garantire la sua sicurezza e non sfigurare davanti alla comunità dando l’idea di aver cresciuto una figlia libertina ― l’eco di queste credenze si può avvertire ancora oggi, nonostante la verginità non ricopra più un ruolo così importante nella reputazione di una ragazza e della sua famiglia e il ciclo mestruale, per quanto tuttora argomento per certi versi tabù, ha perso gran parte delle sue caratteristiche mistiche. Preoccupazioni che non ricadono invece sul figlio: in teoria le stesse regole morali sulla verginità e la castità includono anche lui, nella pratica non solo si chiude un occhio ma si vuole che egli sia sessualmente libero e dimostri così la propria virilità; poco importa se le donne nella sua vita soffriranno per questo.
Il mistero della gravidanza e l’impossibilità di avere la certezza che la prole di una donna sia dell’uomo che l’ha sposata ha generato ansie che hanno guidato le regole morali di gran parte del mondo. Storicamente in Occidente le conseguenze per aver ingravidato donne che non siano la propria moglie possono far storcere il naso in certi ambienti e condurre a determinate conseguenze come il pagamento di multe salate. Ben poca cosa in confronto al destino di donne che portano in grembo una creatura che non è del marito o è stata concepita fuori da un legame legalizzato: le punizioni vanno dall’esilio dalla comunità alla chiusura in convento o al trasferimento in un’altra città, fino all’essere pubblicamente fustigate e costrette a portare sul proprio corpo un marchio che dichiari al mondo il loro adulterio – assai poco rilevante se ciò è avvenuto consensualmente o no – e nei casi più estremi vengono uccise, a volte prima di aver partorito. Una differenza di trattamento dettata proprio da quell’ansia ben espressa dagli antichi Romani: «Mater semper certa est pater numquam». La madre è sempre certa, il padre no. L’uomo deve essere sicuro di avere un legame di sangue per non spendere tempo, risorse e amore per una prole non sua – caso curioso, questa stessa cultura pretende che le mogli accettino in silenzio i tradimenti e la prole illegittima del marito (si noti che con ciò non si vuole imporre nulla a nessuno, ma evidenziare il doppio standard esistente verso l’infedeltà coniugale da parte della società). Prima dei test del Dna l’unico modo per avere una certa sicurezza sulla paternità di un bambino o una bambina era assicurarsi che la donna arrivasse vergine al matrimonio; da qui nascono tutta una serie di pratiche e costumi che mirano proprio a soddisfare questo requisito, e a mantenere così la pace morale della comunità.
Tutto quanto appena descritto spiega perché non tutti i genitori gioivano all’idea di avere una figlia, soprattutto quando questa nasceva in una società dove il nome della famiglia – e tutto il peso sociale ed economico che ne consegue – veniva passato solo ai maschi. Una volta sposata, la donna smette di essere parte della sua famiglia d’origine ed entra a far parte di quella del marito, accompagnata da una dote – somma di denaro o beni materiali – che viene passata dai genitori di lei al marito come “indennizzo” per aver accolto una bocca in più da sfamare; oppure, quando è il marito a dare soldi o beni materiali, è una dimostrazione della propria ricchezza e possibilità di mantenere la moglie, che in questo caso viene vista come una perdita in quanto non potrà prendersi cura dei genitori quando saranno anziani. L’idea del matrimonio come il culmine di un amore fra due persone è in realtà molto recente: nasce durante l’era del colonialismo europeo nell’Inghilterra vittoriana, in un periodo in cui lo sforzo di conquista e razzia degli altri continenti richiede carne fresca da mandare al macello in guerre ed esplorazioni; in soldoni, bisogna aumentare la popolazione, preferibilmente mettendo al mondo maschi ma senza disprezzare le femmine, futuri ventri da ingravidare. Per favorire ciò viene dispiegata una vera e propria campagna a favore del matrimonio e dei vantaggi che da esso derivano per la donna, come quella di avere un buon uomo a fianco che provveda per tutti i suoi bisogni e una prole che se ne occuperà durante la vecchiaia. È allora che si intensifica la presenza delle figure mostruose delle donne non-sposate nella cultura del tempo: il recupero di antichi racconti folkloristici, popolati da streghe incattivite e vecchie gelose della gioventù, e di fanciulle salvate da un prode che poi le sposerà, ha il doppio scopo di promuovere lo spirito nazionalistico e rinforzare i ruoli di genere patriarcali.

Ad aiutare tale mondo fiabesco viene in soccorso la vera novità del XIX secolo, ossia la patologizzazione di qualunque atteggiamento e sentimento della donna che implichi il desiderio di non sposarsi o avere figli: più la medicina va avanti più si mescola con le credenze misogine e xenofobe da tempo presenti in Europa, impossibili da scardinare attraverso le nuove scoperte scientifiche che anzi vengono usate per giustificarle o dimostrarle. È così che la donna che non ricerca una relazione con un uomo o si dimostra troppo indipendente smette di essere la “zitella” o la “strega” e diventa “l’isterica”, un essere mostruoso afflitto da turbe psichiche profondissime che possono essere curate solo con metodi estremi come varie soluzioni di oppiacei, terapia psicanalitica, elettroshock, ricovero in strutture specializzate e, nei casi più gravi, isterectomia e, più tardi, lobotomia. La scienza diventa ancella della rispettabilità e le fornisce una nuova aura di legittimità facendosi forza del metodo scientifico: ci vorranno decenni prima che queste pratiche vengano messe in discussione e abolite, e nessuna delle vittime sarà mai risarcita per la violenza subita.
È nell’ottica della possibile critica sociale e ospedalizzazione, nonché del desiderio di dar loro la migliore vita possibile, che i genitori diventano particolarmente oppressivi verso le proprie bambine: qualunque spirito di iniziativa che non sia rivolto ai doveri di figlia/moglie/madre deve essere soffocato tramite punizioni corporali e non; si inculca nella sua testa che la gioia più grande sarà mettere al mondo una prole sana all’interno di un buon matrimonio, che il desiderio di ambire ai propri personali desideri è roba per “donnacce” o per poverette che devono lavorare per mantenere la famiglia, perché nello spazio pubblico non c’è posto per lei; la sua educazione viene tenuta al minimo rispettabile, e si guarda con sospetto qualora ella si interessi alla cultura per conto proprio perché una donna acculturata è una donna che fa domande e che quindi può “risultare troppo pesante” per essere maritata. Nei casi più estremi si può fare ricorso ai sopradescritti “miracoli” della scienza: la stessa medicina che era restia a fornire cure agli uomini per la loro salute mentale a meno che non manifestassero atteggiamenti pubblicamente violenti, era più che disposta a prescrivere ogni genere di farmaco e oppiaceo alle donne in età da marito per aiutarle a sopportare lo stress, senza mai indagarne le cause.
Qualunque insoddisfazione la donna provi all’interno della propria vita familiare deve essere repressa, bisogna mostrarsi sempre composte e dignitose, e solo dietro la porta della propria camera ci si può lasciare andare a pianti – senza fare troppo rumore perché non sta bene – o sfogarsi nell’alcol e nelle droghe. E se la minaccia dell’ospedalizzazione e le fiabe non funzionano per piegare lo spirito di una figlia ribelle ci pensa la cronaca nera a fornire esempi di cosa succede alle donne libertine: casi come Jack lo Squartatore vengono utilizzati come ammonimenti, mostrati come il destino finale delle donne non rispettabili.

solo fra uomini
Il matrimonio romantico come lo intendiamo noi oggi è quindi abbastanza recente. Prima dell’epoca vittoriana esso era un modo per suggellare alleanze tra famiglie nobili, nella spesso vana speranza che un legame di sangue impedisse guerre fratricide. Le donne delle classi basse avevano sicuramente più autonomia decisionale nella ricerca di un marito, ma anche in questo caso sposarsi per amore non era la priorità: essere single in passato voleva dire o essere nello scalino sociale inferiore e diventare facilmente il capro espiatorio nei momenti difficili della comunità, o entrare in convento; alternative viste come peggiori da molte ragazze e dai loro genitori, che contavano di avere almeno una figlia non sposata per essere accuditi in età avanzata. Inoltre, la questione dell’eredità in culture dove non è previsto vi siano incluse le donne aggiunge un ulteriore motivo di stress: avere un figlio diventa fondamentale per evitare di disperdere i beni e mandare avanti il nome della famiglia ―si veda la legge salica, istituita da Clodoveo I re dei Franchi all’inizio del IV secolo, che prevedeva che le figlie e i loro eredi non potessero ereditare le terre “saliche”, ossia le terre e i beni di proprietà dei Franchi; in seguito questa legge è stata usata per impedire l’ascesa femminile al trono e contestare il diritto dinastico della loro prole. Le conseguenze di questo sono drammatiche: le donne sono costrette a gravidanze fino a che non danno alla luce un bambino e possibilmente qualche “riserva”, con effetti drammatici sulla loro salute fisica e mentale; in molti casi non sopravvivono al parto. Non essere in grado di produrre un erede ha portato dolore e umiliazioni continue. Neanche le classi basse sono risparmiate: un maschio è necessario per aiutare a lavorare la terra o a badare al bestiame, e se i soldi lo permettono è l’unico che può ambire a una buona educazione e scalare la piramide sociale; una femmina era spesso considerata niente più che una bocca in più da sfamare in tempi in cui il cibo era scarso, o merce di scambio.

Questa mentalità ha influenza ancora oggi: la possibilità di fare screening prenatali conduce alcune coppie ad abortire le figlie per avere “l’onore” di avere un primogenito maschio. Gli effetti devastanti di questa pratica si sono visti in Cina e in India, dove non si è esitato a parlare di un vero e proprio genocidio silenzioso di bambine: la politica del figlio unico cinese ha portato a preferire i maschi alle femmine essendo questi gli unici che possono passare il nome della famiglia, decisione che ha causato aborti, infanticidi, abbandono di neonate, traffico di esseri umani, nonché problemi di fertilità e aumento di malattie dovute allo squilibrio ormonale per le continue gravidanze. In India, nonostante non ci sia la stessa politica di controllo della popolazione, è stato il desiderio culturale di avere un primogenito maschio che ha portato alla stessa situazione. Ad oggi le conseguenze sono evidenti: 2 milioni di bambine scompaiono ogni anno; in India il rapporto maschi-femmine è 105:97, in Cina 120:100. Non si pensi che il “progredito” Occidente sia immune: basta andare nelle zone più conservatrici per scoprire storie di donne che hanno abortito le figlie femmine per non portare “sventura” e “vergogna” alla propria famiglia – in alcuni posti ancora si dice, scherzando ma non troppo, che una primogenita è segno di sfortuna; l’idea che le figlie siano una disgrazia ancora riecheggia in battute e proverbi che continuano ad essere recitati, come la convinzione che crescere una figlia sia più difficile di crescere un figlio, o nei tanti video di gender reveal parties dove il futuro padre diventa furioso quando vede coriandoli rosa invece che azzurri; sicuri nell’anonimato di internet, non sono pochi coloro che hanno confessato di aver fatto assumere alla propria compagna la pillola abortiva di nascosto, una volta saputo che la creatura nel suo grembo era femmina e dopo il suo rifiuto di abortire.
Essere una figlia, insomma, non è certo facile. Le aspettative sono tante e le soddisfazioni molto poche, specie in culture che remano contro solo perché si è nate di sesso femminile. Ciò non vuol dire, tuttavia, che le figlie non siano mai state amate nel corso della storia, come alcuni filoni di pensiero più estremisti vorrebbero far credere. L’amore di Cicerone per sua figlia Tullia ha un che di leggendario, soprattutto considerando l’atteggiamento degli antichi Romani verso le donne: Cicerone non ebbe mai da dire nulla di negativo per la figlia – caso unico – le sue lettere sono piene di lodi e amore per lei, e i suoi contemporanei annotano con una certa perplessità il palese favoritismo per Tullia sul primogenito Marco; la prematura morte di lei lo sconvolse al punto da minare la sua carriera politica e di avvocato, un dolore che cercò di mitigare studiando filosofia ma che mai lo abbandonò per il resto della vita. La predilezione per Tullia è innegabile, eppure è risaputo che la utilizzò per i suoi fini stipulando per lei matrimoni che potessero favorire la propria carriera: l’amore di un padre la cui intensità e tenerezza sono giunte fino a noi non lo ha comunque fermato dall’usarla esattamente come altri padri assai meno affettuosi hanno fatto. Ed è forse questo che sconvolge, leggendo le storie delle donne del passato: anche la figlia più amata non è al sicuro da una cultura e una società misogina.
È difficile oggi immaginarsi cosa passasse nella testa dei genitori del passato quando hanno cresciuto figlie in epoche in cui era accettato che il marito facesse violenza alla moglie, quali sentimenti provavano vedendole in matrimoni infelici, come potevano accettare una cultura che si voltava dall’altra parte quando le vedeva piene di lividi e in lacrime e senza una via di fuga; come non hanno mai messo in discussione per secoli pratiche umilianti come mostrare un lenzuolo sporco di sangue a tutta la comunità per dimostrare la verginità perduta della giovane sposa, le centinaia di scuse accampate per far passare la violenza subita come una propria colpa, usare le proprie mani per mutilare il loro corpo. Chissà quali sono stati i loro pensieri quando è stato necessario ucciderle per mantenere la pace nell’ambiente circostante, per zittire le dicerie, per riavere l’onore. Forse allora era facile dare ragione a chi diceva di investire di più nei ragazzi e che un amore come quello di Cicerone per Tullia è niente più che materiale per discorrere di filosofia. Forse per un padre era più facile pensare al proprio genero come a un figlio che pensare al destino del sangue del suo sangue e sapere che c’era ben poco che potesse fare per lei. Chissà cosa pensavano le madri mentre vedevano le figlie ereditare il loro stesso destino. Di prove dell’amore dei genitori per la propria figlia la storia è piena, lo dimostrano i corredi funerari, i gioielli dati in dote, le testimonianze scritte; come facesse questo amore a convivere con quelle pratiche, però, è una domanda a cui ancora bisogna dare risposta.
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Articolo di Maria Chiara Pulcini

Ha vissuto la maggior parte dei suoi primi anni fuori dall’Italia, entrando in contatto con culture diverse. Consegue la laurea triennale in Scienze storiche del territorio e della cooperazione internazionale e la laurea magistrale in Storia e società, presso l’Università degli Studi Roma Tre. Si è specializzata in Relazioni internazionali e studi di genere. Attualmente frequenta il Master in Comunicazione storica.