Il 7 gennaio 1839 il fisico François Arago, nel corso di una lezione all’Académie des Sciences di Parigi, presenta il dagherrotipo, messo a punto dall’inventore francese Jacques Daguerre (1787-1851), che permetteva di riprodurre con un processo meccanico e chimico le immagini che si formano nella camera oscura, segnando la nascita ufficiale della fotografia. Riconoscendo la grande potenzialità di questa invenzione, il governo francese acquisisce i diritti sul processo e il 19 agosto 1839 a Parigi, presso l’Accademia delle Scienze e delle Arti Visive, il fisico François Arago presenta ufficialmente il dagherrotipo, il primo procedimento fotografico per lo sviluppo delle immagini.
Uno degli ambiti creativi sviluppatisi durante i due secoli scorsi, quello che ha visto una ampia partecipazione di donne che hanno imposto la loro arte è proprio la fotografia. Nel corso del Novecento sono sempre più numerose le donne che utilizzano tale mezzo per esprimere con molta efficacia idee, pensieri e creatività: nelle immagini e nelle storie raccontate affiora la poetica femminile. I temi affrontati dalle fotografe sono affini alla fotografia documentaria e sociale, ma l’occhio femminile vede e seleziona il soggetto e dall’immagine affiora un’intensità particolare che sembra proteggere, comprendere, amare. Bambini e bambine, famiglie, gruppi di amici e amiche sono i soggetti più frequenti messi in luce da Dorothea Lange, Lisette Model, Gerda Taro, Diane Arbus, Lisetta Carmi, Vivian Maier; gli aspetti più crudi della società sono raccontati con un’empatia unica come quella che si ritrova nelle immagini di violenza, di guerra, di emigrazione, di paura di Letizia Battaglia, Christine Spengler, Regina José Galindo; tramite lo sguardo di Tina Modotti, Anne Biermann, Paola De Pietri il paesaggio cambia la sua struttura originaria trasformandosi nello spazio aperto di una umanità finalmente liberata da restrizioni, confini e opposizioni.

In particolare mi ha suscitato curiosità la vita di Vivian Maier (New York, 1° febbraio 1926 – Chicago, 26 aprile 2009), rimasta sconosciuta fino al 2007 allorché John Maloof, agente immobiliare, alla ricerca di foto d’epoca per un suo libro su Chicago, ha acquistato all’asta parte del suo archivio confiscato e finito in un box per un mancato pagamento.
Il materiale rinvenuto era composto da moltissimi negativi, filmati, tantissimi rullini mai sviluppati e registrazioni audio. Maloof a questo punto ha ricostruito la vita privata e professionale dell’artista mediante gli oggetti personali, le testimonianze della gente che la conosceva e ne ha realizzato un film-documentario dal titolo: Finding Vivian Maier, che ha ottenuto una nomina agli Oscar del 2015. In pochi anni Maier è stata celebrata in tutto il mondo con diverse mostre, nonostante non si conoscesse ancora la sua biografia, un successo postumo sia per la bellezza delle foto sia per il mistero che la circondava. Oggi quell’archivio è considerato una delle collezioni di street photography più importanti del XX secolo. Negli anni Cinquanta e Sessanta, infatti, la donna ha fotografato in bianco e nero centinaia di soggetti per le strade di Chicago e New York, mentre alla fine degli anni Settanta ha iniziato a fotografare a colori utilizzando una Leica. Interessante è la collezione degli autoritratti in cui Maier si fotografa senza mai guardare nell’obiettivo su superfici riflettenti come le vetrine dei negozi con al collo la sua Rolleiflex 6×6. In tal modo ha documentato gli Stati Uniti nel periodo del boom economico, attraverso le scene viste nell’ambiente urbano e ritratti con i soggetti o intenti nel compiere un’azione o che guardano direttamente in camera, e sorridono, fra cui molti bambini e bambine, cogliendo la loro umanità e naturalezza, riuscendo in tal modo a renderli eterni e sempre attuali.


Uno degli aspetti più interessanti della storia di Maier è dato dal fatto che molti rullini non sono stati sviluppati; Ann Marks, autrice del libro Vita di Vivian Maier. La storia sconosciuta di una donna libera (Utet, 2022), ha cercato di dare una risposta attraverso una ricerca meticolosa sulla vita di questa straordinaria donna, riservata e schiva, che non ha mai condiviso le sue foto di eccezionale ingegno. La storia familiare di Maier è segnata da uomini inaffidabili e violenti e da donne che hanno dovuto cavarsela da sole, lasciando indietro le loro figlie che, a loro volta, ne hanno pagato le conseguenze. Maier stessa è fuggita da una famiglia difficile: il padre americano, Charles Maier, di origine austriaca, sposò la madre Maria Jaussaud, francese, ma ben presto i due si separarono, dividendo i due figli: il fratello crescerà con i nonni paterni, Vivian con la madre, in Francia, tornando negli Stati Uniti, a New York, nel 1938. Di fatto però Vivian ha a lungo viaggiato in Asia, nelle Filippine e in Europa, trovando lavoro come bambinaia; nel 1956 si trasferisce definitivamente a Chicago, dove continuerà a fare la tata per il resto della sua vita e dedicandosi nel tempo libero alla fotografia, passione iniziata in Francia con la macchina fotografica della madre.

Maier ha continuato per anni a fotografare soprattutto a New York, dove negli anni Cinquanta frequenta fotografi e artisti tra cui la francese Jeanne Bertrand, fotografa e scultrice (26 -9-1880 – 28-10-1957). Come racconta Marks nel libro, non riesce comunque a farne un lavoro, forse perché estranea agli ambienti della fotografia professionale. A Chicago conduceva una vita sempre più solitaria, sviluppando una sorta di disturbo da accumulo e collezionando libri e giornali, tanto da rendere la sua camera inabitabile e dover affittare un deposito, materiali che alla fine vanno, appunto, all’asta. Probabilmente il motivo per cui non abbia mai stampato né mostrato buona parte delle sue fotografie potrebbe avere a che fare con la persistente difficoltà di eliminare o di separarsi dai propri modesti averi, indipendentemente dal loro valore effettivo. In quel periodo non esisteva né diagnosi né cura per il disturbo, che poteva diventare, troppo spesso, ragione di problemi sociali e personali per quante persone ne soffrivano, così come è stato per la stessa Maier che, tra l’altro, ha avuto talvolta contrasti con i suoi datori di lavoro. Marks è convinta che abbia subito violenze o abusi sessuali: prova «orrore» per gli uomini, non sopporta il contatto fisico, ha «reazioni brusche che fanno pensare a improvvisi flashback traumatici», «raccomanda alle bambine di non sedersi in braccio agli uomini e descrive loro tutti i reati violenti o a sfondo sessuale di cui un uomo si poteva macchiare». Impossibile saperlo con certezza, comunque tutte/i coloro che ha cresciuto la descrivono come una donna eccentrica ma capace di dare amore.
Nel volume citato, Marks narra di una gita fatta da Vivian alla periferia di Los Angeles, il 17 luglio 1955, quando Disneyland aveva aperto per la prima volta i suoi cancelli, quasi trentamila persone si riversano nei viali mai calpestati, un fiume in piena di bambini e bambine pronte a lasciarsi meravigliare. Tra famiglie, pupazzi e figuranti, si trova pure lei, trasferitasi da poco sulla West Coast in cerca di un nuovo incarico. La donna girovaga da sola tra la folla con una macchina fotografica, proprio qui pare iniziare il suo percorso nella fotografia a colori per immortalare attrici e attori travestiti da nativi americani e i castelli di cartapesta; conclusa la gita quelle foto non verranno viste da nessuno come del resto le altre immagini tenute nascoste agli occhi del mondo per decenni.
La comunicazione figurativa fotografica si riferisce sempre a una realtà specifica mentre quella verbale dà una rappresentazione virtuale della realtà che non possono essere disgiunte, entrambe si incrociano con la vita di Vivian Maier che suscita reazioni emotive, richiamando tutta la nostra attenzione, e ciò che viene alla luce è il ritratto di una donna che esce indenne nonostante le sfide della malattia mentale, fiduciosa nel suo talento, coscientemente consapevole e complessa ma soprattutto libera.

Per approfondire:
John Maloof, film-documentario: Finding Vivian Maier
Ann Marks, Vita di Vivian Maier. La storia sconosciuta di una donna libera, Utet
Howard Greenberg (a cura di), Vivian Maier. Una fotografa ritrovata, Contrasto ed.
Colin Westerbeck (a cura di), Vivian Maier. A colori, Contrasto ed.
In copertina: Vivian Maier, Chicago, 1962, ©Estate of Vivian Maier, per gentile concessione di Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery, NY
***
Articolo di Giovanna Martorana

Vive a Palermo e lavora nell’ambito dell’arte contemporanea, collaborando con alcuni spazi espositivi della sua città e promuovendo progetti culturali. Le sue passioni sono la lettura, l’archeologia e il podismo.
Interessante…lo girerò al fotografo di famiglia!!!
Bravissima e ricercata. Grazie
"Mi piace""Mi piace"