Andromaca. La guerra e la parola

Imperativo categorico, dunque, per le donne greche il silenzio. Se ne può trovare una formulazione perentoria già nell’Odissea, anche se la condizione di Penelope conserva traccia di un’epoca in cui il ruolo delle donne era preminente.

Penelope, Museo Pio-Clementino, Vaticano

In una scena famosa del primo canto la nobile moglie di Odisseo scende nella sala in cui i pretendenti sono riuniti a banchetto e chiede all’aedo di interrompere il racconto del ritorno degli Achei da Troia, troppo doloroso per lei:
«Dal piano di sopra udì il canto ispirato la figlia di Icario, l’accorta Penelope, e scese per la lunga scala della sua casa, non da sola, l’accompagnavano due ancelle. E quando giunse fra i pretendenti, luminosa fra le donne, si fermò presso un pilastro del solido tetto, tenendo davanti al viso il lucido scialle; da un lato e dall’altro le erano accanto le ancelle fedeli. Poi, piangendo, si rivolse al cantore divino: “Femio, molte altre storie conosci capaci di affascinare i mortali, gesta di uomini e di dei, che i cantori celebrano: canta una di queste, seduto tra loro, mentre in silenzio bevono vino; ma interrompi questo canto tristissimo, che sempre mi strazia il cuore nel petto, da quando mi colpì un dolore tremendo, insopportabile. Tanto grande è l’uomo che rimpiango e ricordo sempre, un eroe la cui gloria riempie l’Ellade e raggiunge Argo», Odissea, I, 328-344.

Ma Telemaco, il figlio giovanissimo, invita perentoriamente la madre a tornarsene nella zona della casa che le è riservata e a non mettere il naso in faccende che non le competono:
«A lei rispose allora il giudizioso Telemaco: “Madre mia, perché ti dà fastidio che il fedele cantore ci rallegri col canto che la mente gl’ispira? […] Il tuo cuore e il tuo animo sopportino di ascoltarlo: non il solo Odisseo perse il dì del ritorno da Troia, ma molti altri morirono. Torna nelle tue stanze e pensa alle tue cose, telaio e fuso, e ordina alle ancelle di badare al lavoro; della parola si occuperanno gli uomini tutti, ma io soprattutto, che ho potere in questa casa”. Lei tornò, stupita, nelle sue stanze, serbando nel cuore le sagge parole del figlio. […] Nella sala ombrosa i pretendenti vociavano: tutti desideravano di giacere a letto con lei», Odissea, I, 345-366.

Le parole evidenziate costituiscono quella che in termini tecnici viene definita un’espressione formulare, cioè una piccola porzione di testo preconfezionata, che il cantore poteva impiegare in situazioni simili, apportandovi le varianti richieste dal contesto. Sono quasi identiche, infatti, quella che usa Ettore nel VI canto dell’Iliade, quando ingiunge alla moglie Andromaca di tornare a casa e di lasciare che sia lui, e gli altri troiani, a scegliere la strategia adatta a difendere la città:
«Sventurata, non tormentarti troppo il cuore, nessun uomo mi getterà nell’Ade contro il destino; alla Moira, non c’è uomo che possa sfuggire, né vile, né valoroso, dal momento ch’è nato. Torna a casa e pensa alle tue cose, telaio e fuso, e ordina alle ancelle di badare al lavoro; della guerra si occuperanno gli uomini, tutti quelli che nacquero a Ilio e io soprattutto», Iliade, VI, 486–493.

Penelope e Andromaca, hanno dunque trasgredito, hanno varcato un confine. Eppure Penelope ha preso ogni precauzione per preservare la sua dignità: si è fatta accompagnare dalle ancelle, si è velata, si è fermata presso un pilastro. Allo stesso modo Andromaca, che, pazza di dolore perché «ha sentito dire che i Troiani cedono e la potenza achea trionfa», è uscita addirittura di casa, ha accanto l’ancella con il figlioletto in braccio. La spinge l’urgenza di convincere Ettore, non certo a sottrarsi al suo dovere, ma almeno a scegliere una posizione meno pericolosa:
«Infelice, la tua forza sarà la tua rovina; non hai pietà del figlio ancora bambino e di me sventurata, che presto resterò vedova, perché gli Achei ti assaliranno tra poco e ti uccideranno; e se ti perdo allora è meglio che muoia anch’io; non ci sarà più conforto per me se il tuo destino si compie, solo dolore. […] Abbi pietà di me, resta qui sulla torre, non fare di tuo figlio un orfano, di me una vedova, ferma l’esercito vicino al fico selvatico, là dove è più facile attaccare la città, salire sulle mura. Per tre volte là son venuti e hanno tentato l’assalto gli Achei più forti», Iliade, I, 407–435.

Il divieto di parola imposto da Telemaco alla madre ci sembra brutale, mentre le parole di Ettore non ci turbano più di tanto: l’estraneità delle donne alla guerra, il loro temperamento pacifico, la loro “naturale” inclinazione al pacifismo sono stereotipi fin troppo consolidati e mai sufficientemente messi in discussione. Perciò apprezziamo che Andromaca non si allinei al sistema di valori vigente, condiviso dalle donne, in base al quale l’onore è più importante della vita. Né ci sorprende, che, sconvolta al pensiero di perdere anche il marito – la guerra le ha portato via padre, madre e tutti i sette fratelli – gli suggerisca una posizione meno rischiosa, cercando ingenuamente di farla passare come più vantaggiosa dal punto di vista strategico.

Se non fosse che, seguendo l’evoluzione della figura della moglie di Ettore nei testi successivi, arriviamo a sospettare che quelle parole rivelino una storia diversa.
Come si sa, i poeti tragici del V secolo, ponendosi in rapporto dialettico con la produzione epica, ne fanno rivivere i personaggi principali nelle loro opere: solo qualche decina le tragedie pervenuteci – su una produzione che doveva aggirarsi intorno al migliaio di opere, composte nell’arco di pochi decenni – tuttavia sufficienti per capire come l’insieme di storie e conoscenze diffuse attraverso i poemi omerici (su cui i bambini imparavano a leggere) costituissero un patrimonio condiviso, una sorta di enciclopedia comune a tutto il mondo greco. Si poteva così reinventare un personaggio o aggiungere particolari a una storia, reinterpretarla, introdurre una variante, per incuriosire e sorprendere il pubblico, contando sulla sua competenza in fatto di miti. Un po’ come accade oggi per le favole tradizionali, che non solo Disney riscrive per adattarle ai gusti e ai valori delle nuove generazioni.

La conquista e la distruzione di Troia e poi il ritorno dei capi Achei nelle loro città offrivano spunti narrativi e drammatici inesauribili e i “sequel” dei poemi epici si moltiplicarono nel corso del V secolo, soprattutto dopo che di quei “testi”, trasmessi oralmente per secoli, cominciarono a circolare numerose versioni scritte: sembra che ogni città avesse la sua; secondo la tradizione, negli ultimi decenni del VI secolo ad Atene ne era stata redatta la prima, per iniziativa e volontà del tiranno Pisistrato. E poteva accadere che le invenzioni più recenti si riflettessero sul modello originario modificandolo. È possibile e verosimile, per esempio, che le restrizioni al ruolo delle donne, alla loro presenza in pubblico e al loro diritto di parola, codificate nel corso del V secolo e ribadite nei testi tragici, siano state proiettate sui personaggi femminili che nella tradizione epica mostravano caratteri capaci di testimoniare una condizione di maggior prestigio.

Nelle tragedie che abbiamo la formulazione più lapidaria e incisiva del valore che assume il silenzio per una donna, la troviamo nelle parole dell’acheo Aiace, secondo solo ad Achille, nella tragedia di Sofocle che da lui prende il nome.  Rivolgendosi a Tecmessa, la principessa frigia assegnatagli come bottino di guerra, di cui ha fatto la sua concubina, l’eroe afferma: «Donna, alle donne il silenzio dona dignità – kósmos in greco» (Aiace, 293). Ma Tecmessa, che riferisce la frase al coro, la bolla come «il solito ritornello caro ai poeti».

Tecmessa

Un paio di decenni più tardi lo stesso concetto è ribadito negli Eraclidi di Euripide, in tre versi (475-477) che aggiungono per le donne all’obbligo del silenzio quello di rimanersene tranquille a casa.
Ma torniamo ad Andromaca, che ritroviamo, in un ruolo di rilievo, nelle Troiane, la tragedia euripidea dedicata alla sorte delle donne dei vinti. In essa la moglie di Ettore si rivolge alla suocera Ecuba con un lungo discorso, in cui lamenta di essersi invano attenuta scrupolosamente alle regole:
«Io avevo mirato a raggiungere una buona fama e l’avevo più che ottenuta, ma la sorte mi ha tradito. Tutti i comportamenti saggi inventati per le donne, mi ci sono impegnata, nella casa di Ettore. Per prima cosa – sia o no giusto biasimare le donne per questo – sapendo che, se una donna esce di casa, attira su di sé automaticamente cattiva fama, io, mettendo da parte il mio desiderio, rimanevo chiusa dentro. E sotto il mio tetto non lasciavo entrare neppure le chiacchiere ingegnose delle donne. Mi bastava avere dentro casa un ottimo maestro nel mio intelletto. Al mio sposo offrivo il silenzio della lingua e la tranquillità dello sguardo. E sapevo bene in quali cose dovevo vincere io e in quali lasciare a lui la vittoria», Troiane, 643-656.
Senza soffermarci sulle pur interessanti considerazioni che seguono – l’infelice donna si chiede quale comportamento possa considerarsi virtuoso nei confronti del nuovo marito, Neottolemo, figlio di colui che ha ucciso Ettore – ascoltiamo le parole di Taltibio, incaricato di trasmettere alle prigioniere le decisioni dei vincitori; ad Andromaca l’araldo comunica con qualche imbarazzo che il figlio non la seguirà nella schiavitù, ma morirà precipitando dalle mura. Poi conclude: «Perciò così avvenga: e tu ti mostrerai più saggia. Non avvinghiarti a lui, soffri nobilmente le tue sciagure, sei debole, non pensare di essere forte, mentre nulla tu puoi: in nessun modo hai possibilità di opporti. Bisogna che tu veda la realtà: è perita la città e il tuo sposo, e tu sei in nostro potere e noi siamo certo capaci di combattere contro una donna, sola. Per queste ragioni io ti proibisco di cercare lo scontro, di fare qualcosa di vergognoso e di ostile, e anche di lanciare maledizioni sugli Achei. Se infatti dirai qualcosa per cui l’esercito si adirerà, questo bambino non verrà sepolto né otterrà compianto. Se taci e accetti di buon grado la tua sorte, non lascerai insepolto il suo cadavere e troverai gli Achei più benevoli nei tuoi confronti», Troiane, 726-739.

Cratere di Brygos, particolare

Non è difficile percepire in queste parole una sorta di inquietudine, del tutto assente nelle formule rituali con cui lo stesso Taltibio, o altrove analoghi messaggeri di sventura, invitano a fare di necessità virtù chi si trova in condizioni di inferiorità. A colpirci è l’insistenza sulla capacità dei vincitori di avere la meglio su una donna sola, debole, che vanamente potrebbe cercare di opporsi «pensando di essere forte».
La spiegazione si trova nel nome di Andromaca, che conserva, con ogni probabilità, memoria di una figura di guerriera: una donna “che combatte gli uomini” o addirittura – anche se questa etimologia è meno sostenibile – “che combatte come un uomo”.

Madrid, Andromaca, Passeggiata Recoletos

Ce lo conferma una testimonianza figurativa eccezionale: in una scena dipinta sul cratere di Brygos (480 a.C. circa) vediamo Andromaca difendere il figlio armata di un enorme pestello, con cui riesce addirittura a uccidere un soldato acheo anche se ciò non basta a salvare il bambino. Una variante del mito piuttosto diffusa se, come sembra, si ritrova nel frammento di un altro vaso.
È dunque possibile rileggere sotto una luce nuova la famosissima scena del VI canto dell’Iliade: Andromaca è una donna che s’intende di guerra, di strategia, una donna capace di combattere in prima persona (trasformando in arma letale, se necessario, un utensile domestico!); una donna che mal sopporta di starsene seduta in casa a sorvegliare il lavoro delle ancelle; e soprattutto una donna che ha deciso di non tacere più. Intuendolo, Taltibio non si limita a ingiungerle di non agire, ma la minaccia, perché rinunci anche a parlare, preoccupato di ciò che potrebbe dire e delle maledizioni che potrebbe scagliare contro gli Achei: le parole sono armi.

Saprà farne buon uso l’ultima Andromaca di Euripide, nella tragedia che porta il suo nome.

***

Articolo di Gabriella de Angelis

Docente di latino e greco nei licei e nei corsi dell’Università delle donne Virginia Woolf, si è dedicata alla rilettura dei testi delle letterature classiche in ottica di genere. All’Università di Aix-Marseille ha tenuto corsi su scrittrici italiane escluse dal canone. Fa parte del Laboratorio Sguardi sulle differenze della Sapienza. Nel Circolo LUA di Roma intitolato a Clara Sereni, organizza laboratori di scrittura autobiografica.

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