La terza lezione del corso sulla sessualità della Sis, dal titolo Sessualità, colonialismo e modificazioni genitali femminili, è presentata dalla professoressa Barbara Sorgoni, antropologa specializzata nella storia dell’antropologia italiana nel periodo coloniale, studiosa di relazioni sociali interrazziali nelle colonie con focus sull’Eritrea e di forme storiche e recenti di razzismo.
La storia coloniale italiana è un capitolo convenientemente ignorato: ancorate/i all’idea che ci sia una separazione netta fra governanti e governati, non abbiamo mai avuto il coraggio di affrontare il nostro passato – una scelta deliberata le cui conseguenze si stanno oggi vedendo. Persiste l’idea che il colonialismo italiano sia stato in qualche modo più “buono” di quello delle altre nazioni europee, senza conseguenze di lungo periodo: idee che non hanno alcun fondamento storico, frutto di una propaganda che aveva tutto l’interesse a chiudere il capitolo fascismo in fretta e furia per poter riabilitare nomi scomodi nella nuova repubblica. Le conseguenze di questa scelta si sono viste in vari campi, come quello dei racconti sulle immigrazioni degli anni Settanta: la venuta di decine di donne dalle ex colonie italiane, soprattutto eritree, è passata in sordina rispetto alla fanfara e all’allarme che ha suscitato l’arrivo degli uomini; poco conto si è dato ai soldi che queste persone guadagnavano in Italia e spedivano ai loro Paesi d’origine, finanziando la guerra fra Eritrea ed Etiopia – conflitto fra l’altro in cui l’Italia ha giocato un ruolo di rilievo anche se per lo più piace pensare che la colpa non sia nostra e che quella guerra sia in realtà una dimostrazione che “a quei tempi” si stava meglio. Dagli anni Settanta l’immigrazione è cambiata moltissimo seguendo le nuove situazioni geopolitiche. Quando le famiglie immigrate hanno preso pianta stabile nel Paese, facendo figli e figlie e partecipando attivamente alla vita sociale e politica, è sorta con forza ancora maggiore la questione dello scontro culturale: un tema delicato e fin troppo spesso strumentalizzato, e su tutte lo dimostra la narrazione attorno alla modificazione dei genitali femminili. Gli studiosi e le studiose di antropologia che ne hanno parlato sono stati/e sovente accusati/e di relativismo, di accettare la mutilazione del corpo femminile solo perché “così si fa lì”. Il problema è in realtà più ampio e complesso e per poterlo affrontare è necessario mettere da parte i nostri pregiudizi e tenere a bada le nostre emozioni per svilupparlo con lucidità. Ma andiamo con ordine.

Il colonialismo ha creato una gerarchia razziale fra colonizzatori e colonizzati accompagnata da un corollario di doveri, diritti, credenze e pregiudizi che ancora ci influenzano oggi. In antropologia qualunque incontro è un momento in cui ci si guarda e si cerca di comprendersi secondo le proprie strutture e all’intento di un rapporto di potere: il colonialismo nasce con lo scopo di dominio totale ma col tempo, nonostante le gerarchie razzializzate, le relazioni mutano di significato e si costruiscono in modo nuovo. Le comunità bianche europee che vivono nelle colonie si differenziano dalla madre patria, hanno bisogno di forme nuove e diverse di moralità per potersi distinguere dalle genti locali e creare un legame fittizio di solidarietà fra i colonizzatori, bisognosi di pensarsi come un gruppo omogeneo contrapposto a quello dei colonizzati, visto anch’esso come un monolite. Il controllo della sessualità sia maschile che femminile è qui fondamentale: le europee nelle colonie erano sottoposte a un controllo molto più rigido della loro sfera sessuale rispetto alle loro coetanee nel Vecchio continente, a prescindere dalla posizione sociale. Le donne italiane nelle colonie sono poche, e da quello che emerge dalle altrettanto poche testimonianze scopriamo che molte sono sorprese dalla partecipazione delle classi basse alla vita sociale della colonia o di potersi permettere una domestica nonostante il basso guadagno; quelle che si trasferiscono lamentano la libertà perduta di cui godevano nella madre patria.
I colonizzatori sono ossessionati dalla sessualità delle donne africane, considerata bestiale perché priva di qualunque moralità, affermazione dimostrabile osservando le forme del loro corpo. Georges Cuvier, naturalista francese vissuto a inizio Ottocento, annota la grande fama del grembiule delle Ottentotte ormai da tre secoli, “scoperto” nel Cinquecento presso il gruppo Khoisan, nativo dell’Africa del Sud e noto per il linguaggio unico caratterizzato da consonanti click, simili a schiocchi che i colonizzatori europei giudicarono paragonabili a versi di animali e quindi prova della loro primitività. I racconti che arrivano in Europa da questo punto del continente tra Cinquecento e Ottocento sono al limite del fantastico, ed emerge in tutta la sua bizzarria e inquietudine l’eccessiva attenzione per i genitali femminili: molti annotano l’ipertrofia delle grandi labbra, che ricadono come un “grembiule”. Quando la giovane Saartjie Baartman fu portata in Gran Bretagna nel 1810 per essere esibita come fenomeno da baraccone nei freakshow e negli zoo umani riscosse un grande successo di pubblico, attirato dalla forma pronunciata delle sue natiche e curioso di vedere il famigerato “grembiule”. Baartman venne soprannominata Venere Ottentotta – termine inventato derivante dal dialetto olandese del Capo che significa “balbuziente” – e divenne l’ossessione degli studiosi: alla sua morte il suo corpo fu dissezionato, e vennero immersi nella formaldeide sia il suo cervello che i suoi genitali per essere conservati – fortunatamente i resti sono stati restituiti al Sudafrica, che l’ha eletta a sua eroina nazionale e simbolo della violenza coloniale.

La presunta ipertrofia delle donne africane fu oggetto di discussione nell’Ottocento in due ambiti: nella teoria evoluzionista di Darwin, per cui la forma dei genitali venne ricondotta alle scimmie, portando alla “logica” deduzione che i Khoisan fossero l’anello mancante tra l’essere umano e i primati; e nell’atavismo, una caratteristica delle popolazioni considerate primitive, sopravvissuta nei corpi degli uomini e delle donne moderne: se una donna bianca ha ipertrofia dei genitali è segno che il suo corpo è più simile a quello di un essere primitivo che di uno evoluto, quindi privo di moralità e freni sessuali, pertanto essa è destinata alla prostituzione. La visione europea dell’Africa è principalmente dicotomica: là dove non esiste il matrimonio monogamico sancito dalla Chiesa non esiste moralità ma solo sregolatezza, soprattutto di sessualità femminile. Quando gli uomini italiani arrivano in Eritrea trovano popolazioni tigrine cristiane copte con le quali stabiliscono relazioni di concubinaggio: si prende in casa una donna che viene mantenuta in cambio di servizi di “conforto”.
Se la compagna rimane la stessa per molto tempo la relazione diventa “madamato”, che i colonizzatori italiani associano al demoz: due adulti consenzienti intraprendono una relazione temporanea, con determinati diritti e doveri e dove l’eventuale prole viene riconosciuta dal padre. Il demoz non è una forma inferiore di unione rispetto al matrimonio consacrato, è anzi una tutela delle donne e dei loro figli e figlie perché responsabilizza gli uomini. Gli italiani non comprendono questa pratica, pensano sia una forma più lunga di concubinaggio e la assimilano sempre e comunque alla prostituzione, il che rende la relazione prettamente immorale: loro guadagnano una compagna, e le eritree guadagnano un compenso in soldi e beni materiali. Presto le donne locali compresero che il madamato non era il demoz, ma questo non impedì ad alcune di loro di entrare in una relazione con gli italiani: oltre al vantaggio di godere di un miglioramento della condizione sociale, se riuscivano a far riconoscere figlie e figli, questi avrebbero avuto la cittadinanza italiana. Non sono poi pochi gli italiani, padri padroni, che riconoscono la prole nata dal madamato, e non è raro che mandino a casa foto con la propria compagna mostrandola con orgoglio a parenti e amici. Relazioni che non vanno certo idealizzate, ma è innegabile che in alcuni casi si fosse instaurato dell’affetto sincero: per questo il regime fascista fece di tutto per impedirle, soprattutto quando da esse nasceva una prole riconosciuta; era inammissibile che il virile uomo italico si contaminasse con una donna colonizzata o che provasse affetto per lei. Quando le proibizioni e le multe non funzionarono, il regime minacciò di ritirare la cittadinanza a tutti coloro che si fossero “mischiati” con le africane.
Nel corso del tempo, dopo le varie vicissitudini e i grandi cambiamenti, l’ossessione per i genitali delle donne africane è rimasta, spostandosi su un altro campo di battaglia: la modificazione dei genitali femminili che porta a una “chiusura” di essi, contrapposta alla “apertura” dell’ipertrofia. L’argomento è scottante, e i media non hanno aiutato a fare chiarezza sull’argomento. In Italia la questione esplode nel 2004: davanti alla richiesta di genitori stranieri di modificare i genitali delle loro figlie secondo l’usanza della propria cultura, alcuni medici suggeriscono di trovare un compromesso in una puntura di spillo sulla clitoride fino a far uscire una goccia di sangue. È un modo per venire incontro alle richieste dei genitori, che minacciavano di portare le bambine nei Paesi d’origine per sottoporle alle modificazioni, e la tutela di quest’ultime, sostituendo un rito con un altro; quando la notizia arriva ai media, però, l’aspetto della contrattazione viene completamente estromesso dagli articoli che parlano di un attacco ai corpi delle donne, causando una barricata totale da parte delle istituzioni: il governo di allora creò una legge apposita per bandirla, assieme a un opuscolo dedicato al tema che diffuse ancora di più disinformazioni. Da notare, tristemente, che la tutela delle piccole, centrale nel compromesso trovato dal personale sanitario, viene poi completamente abbandonata: quello che indigna è che queste pratiche avvengano in Occidente.
L’infibulazione è solo una delle forme di modificazioni dei genitali, già note peraltro agli antropologi di inizio Novecento e viste da loro come l’altra faccia dell’ipertrofia, un intervento maschile che serve a controllare la sessualità sfrenata delle africane. Questa “spiegazione” si collega alle “cure” per l’isteria presenti in Europa, che apportavano modificazioni ai genitali e all’apparato riproduttivo delle europee, per questo le pratiche fatte in Africa non sorprendono. Ciò che è cambiato da allora è stata l’introduzione del concetto di diritti umani e dell’autonomia individuale sulle proprie decisioni e sul proprio corpo: le modificazioni dei genitali non possono essere accettate in una società che riconosce i diritti umani. Tuttavia, l’argomento affrontato dal punto di vista dei diritti è spesso fatto in modo molto ignorante e accondiscendente: come fecero i colonizzatori dell’Ottocento, oggi si pensa siano pratiche barbare e primitive e non se ne ricerca il senso. Non si può giudicare una cosa che non si conosce, e questo vale anche per le pratiche di modificazione dei genitali. Ciò ovviamente non le esenta dall’essere pericolose e profondamente traumatizzanti per le vittime ad esse sottoposte ma se si vuole attuare un vero cambiamento non lo si può fare imponendo o umiliando, si otterrebbe solo chiusura dalla parte opposta – come infatti è accaduto.
Ci sono diversi tipi di modificazione dei genitali femminili: l’infibulazione, la più conosciuta, è in realtà la meno comune e praticata; l’escissione, l’ablazione della clitoride accompagnata a volte anche da quella delle grandi labbra, convive con interventi espansivi, allungamenti e allargamenti delle parti per renderle più ricettive e fertili. Le pratiche precedono sia l’Islam che il Cristianesimo, e non sono presenti solo in Africa: interventi simili sono stati praticati in Medio Oriente, Asia e presso alcune popolazioni dell’America latina e australiane. Perfino tra la popolazione bianca nordamericana ed europea sono diffuse, al punto che su internet è possibile trovare dei veri e propri kit casalinghi per l’infibulazione volontaria, sia femminile che maschile. Le spiegazioni dietro queste pratiche sono varie e non sempre legate alla tradizione, c’è chi afferma aiuti nella pulizia e chi ne fa una questione estetica; la loro diffusione è dovuta alla credenza comune a molte culture che l’essere umano alla nascita sia un essere non finito, che la cultura deve poi completare intervenendo sul suo corpo. Le modificazioni genitali istituiscono l’uomo in quanto uomo e la donna in quanto donna, sono rituali collettivi che costituiscono la persona nel suo ruolo all’interno della comunità. Capire questo è fondamentale per poter apportare un cambiamento su di esse, ridirigendo verso pratiche molto meno invasive e traumatiche.
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Articolo di Maria Chiara Pulcini

Ha vissuto la maggior parte dei suoi primi anni fuori dall’Italia, entrando in contatto con culture diverse. Consegue la laurea triennale in Scienze storiche del territorio e della cooperazione internazionale e la laurea magistrale in Storia e società, presso l’Università degli Studi Roma Tre. Si è specializzata in Relazioni internazionali e studi di genere. Attualmente frequenta il Master in Comunicazione storica.
Le mutilazioni genitali femminili sono riconosciute a livello internazionale come una violazione dei diritti delle bambine e delle donne. La pratica riflette una radicata disuguaglianza di genere ed è una forma estrema di discriminazione nei confronti delle donne.Queste pratiche violano anche il diritto alla salute, alla sicurezza e all’integrità fisica, il diritto a essere liberi dalla tortura e da trattamenti crudeli, inumani o degradanti e il diritto alla vita quando hanno conseguenze letali.
Il 6 febbraio si celebra in tutto il mondo la Giornata Mondiale contro l’infibulazione e le mutilazioni genitali femminili.
Nel corso di molte interviste e in vari libri come Fiore del deserto, Waris Dirie ha preso posizione contro l’infibulazione,Dal 1997 al 2003 è anche stata ambasciatrice speciale per le Nazioni Unite nella lotta contro questa pratica.
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