Le cavaliere nell’epica cavalleresca rinascimentale. Moderata Fonte

Per concludere la serie di articoli dedicati all’epica cavalleresca rinascimentale letta in chiave femminile, mi è sembrato opportuno cambiare punto di vista per guardare non più le personagge, ma le scrittrici. Durante il Rinascimento, le donne si dedicano appassionatamente all’attività letteraria e il numero di scrittrici aumenta notevolmente (come testimoniato anche dal volume di Valeria Palumbo che, nella biografia Veronica Franco. La cortigiana del Rinascimento veneziano, pubblicata nel 2020 da Enciclopedia delle Donne, ci offre un affresco colorato e vivace del Rinascimento letterario femminile (qui si può leggere la recensione)

Moderata Fonte, Tredici canti del Floridoro

Gli studi che sono stati fatti sul Rinascimento al femminile si sono però concentrati soprattutto sulla lirica amorosa e meno sulla produzione epico-cavalleresca, anche perché cosa potrebbero avere da dire le donne di un genere così intriso dell’immaginario bellico maschile? Si potrebbe pensare poco o nulla e, invece, il volume curato da Valeria Finucci e dedicato ai Tredici canti del Floridoro di Moderata Fonte mi ha proprio fatto cambiare idea: secondo la curatrice del volume, infatti, le scrittrici rinascimentali avevano tutto da guadagnare sostituendo la poesia d’amore con quella epico-cavalleresca. Prima di tutto superavano quella contraddizione in base alla quale, divenendo soggetto e non più oggetto della lirica amorosa, avrebbero, nella migliore delle ipotesi, raccolto l’indifferenza di chi non era interessato alle pene d’amore femminili, nella peggiore, invece, avrebbero perso la reputazione dichiarandosi a un uomo, cosa assolutamente inaccettabile in una società rigidamente codificata in base a canoni patriarcali.

Attraverso la poesia cavalleresca, invece, si poteva parlare d’amore in modo anonimo, senza un’eventuale identificazione autrice-io lirico, ma non solo; è proprio con la diffusione di tali poemi, infatti, che si può veramente parlare di bestseller tanto che le tipografie, riconoscendovi un genere popolare, investivano molto su di esso: i poemi epico-cavallereschi erano, quindi, facili da vendere, ma anche da far stampare, in formati economici, più sostenibili e alla portata delle autrici femminili. Infine, il divario esperienziale, che tagliava fuori le donne da un genere legato, come detto prima, all’immaginario bellico maschile, poteva essere recuperato attraverso la cultura del libro e studiando come autodidatte le regole delle tenzoni e i codici d’onore cavalleresco attraverso la lettura e lo studio dei molteplici trattati allora in circolazione.

Negli anni immediatamente successivi al successo di Ariosto con L’Orlando Furioso, il numero di scrittrici di romanzi cavallereschi fu veramente sorprendente e Venezia divenne la capitale di questa rinascita letteraria femminile con autrici come Laura Terracina e Tullia d’Aragona. La prima, nel 1551, pubblicò il Discorso sopra il principio di tutti i canti dell’Orlando Furioso che venne ripubblicato ben quattordici volte e utilizzato dagli insegnanti in sostituzione del testo di Ariosto, peccato che chi utilizzò questa “versione scolastica” non riconobbe o conobbe mai la vera identità della sua autrice, indicata al maschile, cosa che ci permette di comprendere quanto poco fossero considerate le scrittrici, anche se le loro opere erano di indubbio valore. Nel 1560, Tullia d’Aragona, invece, si cimentò in una rielaborazione in chiave più sobria del Guerrin Meschino affinché diventasse un testo appropriato per chiunque, depurandolo di episodi troppo scabrosi e violenti. Al di là dell’opera moralizzatrice, il nuovo maquillage rese il testo una lettura appropriata anche alle donne, rendendo accessibile un’opera che probabilmente non avrebbe avuto presa sul pubblico femminile. Nel 1606, Margherita Sarocchi, organizzatrice di un cenacolo di intellettuali a cui partecipò anche Galileo Galilei, pubblicò a Roma un poema eroico in piena regola sulle lotte contro i Turchi, organizzate da un certo Scarderbeg che diede il titolo all’opera, Scarderbeide. Luisa Marinelli, nel 1635 a Venezia, si presentò con L’Enrico, ovvero Bisanzio acquistato:ambientato durante la IV Crociata, il poema celebrava le imprese del doge Enrico Dandolo. Barbara Albizzi-Tagliamochi, nel 1640, scrisse Ascanio errante da intendersi come continuazione dell’Eneide. Da considerare che, tra le opere citate, le uniche due a essere ripubblicate nell’800 furono il Meschino e l’Enrico. Infine, un esempio di “tarda” scrittura femminile cavalleresca è quello di Luisa Bergalli dirigente, insieme al marito, del Teatro S. Angelo di Venezia: nel 1747 pubblicò La Bradamante proprio nell’anno in cui Carlo Goldoni, ormai quarantenne, entrò al suo servizio e, tra la fine degli anni ’40 e i primi anni ’50, produsse un gruppo di commedie in cui le donne erano indiscusse protagoniste, tra di loro anche Mirandolina, la locandiera.

Questa rassegna, con tutta probabilità incompleta e parziale, ma comunque nutrita di nomi, è utile per porsi alcune domande: in un panorama letterario cinque-seicentesco in cui l’imitazione era la norma e il genere cavalleresco era rigidamente codificato, come una scrittrice poteva trovare la propria voce che non fosse un semplice scimmiottare i propri colleghi maschili, rinnegando la propria specificità di genere? Se gli scrittori rinascimentali potevano misurarsi con predecessori illustri, anche se spesso venivano travolti dall’ansia del confronto, per le autrici non ci sono punti di riferimento, modelli femminili a cui rifarsi anche solo per un confronto. E questo le rendeva più vulnerabili e spesso ritenute poco dotate e inesperte proprio perché lungo il percorso della sperimentazione, non sempre riuscivano a produrre risultati credibili e apprezzati: è quello che accade a Moderata Fonte, pseudonimo di Modesta Pozzo de’ Zorzi.

Nata a Venezia nel 1555, vi muore nel 1592; proveniente da una famiglia benestante, rimase orfana precocemente con un fratello maggiore. Venne educata per un certo periodo dalla nonna, ma aveva già appreso le lezioni assegnate al fratello con maggior profitto. Quando il fratello si sposò, Moderata andò a vivere presso la famiglia di uno zio, Giovanni Nicolò Doglioni, che ne avrebbe scritto la biografia. Era notaio, ma anche uomo di grande cultura come testimoniato anche dalla sua adesione a una delle tante Accademie di dotti dell’epoca, quella degli Incogniti. Fu il primo a comprendere le doti della nipote, ad assecondarne l’indole e poi a pubblicarne le opere. Moderata si sposò con l’avvocato Filippo de’ Zorzi da cui ebbe quattro figli e morì all’età di 37 anni durante il parto della sua quinta figlia. La sua produzione letteraria spazia dalla poesia d’amore a quella epica fino ad approdare al dialogo, genere molto in voga tra ‘500 e ‘600, basti pensare al Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di Galileo Galilei.

Moderata Fonte, Il merito delle donne

Il titolo dell’ultima opera di Fonte, uscita postuma nel 1600, è Il merito delle donne ed è interessante parlarne perché ci permette di inquadrare l’autrice del poema epico di cui parleremo in seguito. Le protagoniste del dialogo sono sette donne veneziane, unite “da cara e discreta amicizia”, che s’incontrano nella “casa bellissima” con un “giardino bellissimo” di una di loro. Nell’arco di due giornate le sette amiche discutono della condizione della donna e dei rapporti con l’uomo, ognuna facendosi interprete della propria particolare condizione: c’è la donna sposata da tempo, la neo-sposa, la vedova, la madre attempata con la figlia, la vedova e l’intellettuale nubile. Il dialogo verte sui vantaggi/svantaggi delle rispettive situazioni e sul rapporto fra i sessi e mette in luce come venisse considerata ingiustificata la preminenza che la società accordava agli uomini e come fosse auspicabile una vita autonoma e senza vincoli: la condizione di moglie e madre risultava, infatti, quella più gravosa in termini di subordinazione.

Il punto di approdo della discussione sta proprio nell’individuazione delle cause che rendono le donne “schiave volontarie fino alla morte” degli uomini. L’opera sottolinea l’importanza dell’insegnamento reciproco fra donne in vari campi del sapere, tra cui le scienze naturali e la medicina, per emanciparsi dal potere maschile e si conclude con una richiesta agli uomini di una maggiore comprensione e collaborazione.

Il merito delle donne si configura come il punto di approdo della produzione di Moderata Fonte che, come detto in precedenza, si cimentò anche con il genere epico-cavalleresco, lasciando incompiuto il suo Floridoro, poema in ottava rima, forse proprio perché la condizione di moglie e di madre era per lei troppo gravosa per permetterle anche di continuare a scrivere, oppure perché, giunta a un punto critico del poema, non riusciva ad andare avanti o ancora perché aveva trovato nell’incompiutezza la naturale conclusione della sua opera. Sia come sia, quello che è interessante rilevare è come l’irrisolto e la contraddizione, che la critica attribuisce all’inesperienza di Fonte, possano in realtà essere la chiave di lettura che l’autrice abbia voluto dare al suo poema, il cui protagonista è Floridoro, un adolescente con grandi ambizioni e poca esperienza, figlio di Silvarte, nobile governatore di Micene, che segue il padre in visita al re di Grecia Cleadro. Quest’ultimo ha indetto una serie di tornei in onore della figlia Celsidea che non sarà, come da tradizione, un premio, un oggetto da assegnare al vincitore di tali scontri in quanto il re ha stabilito che la ricompensa sia una corona incastonata posizionata sulla testa del fortunato dalla stessa principessa. Sia il personaggio di Floridoro che quello di Celsidea presentano caratteristiche singolari. Che la principessa sia bella è indubbio vista la descrizione che ne viene data nel primo canto (Erano i graziosi almi sembianti/di costei, che fu detta Celsidea,/e i suoi costumi sì leggiadri, e santi,/che parea non mortal donna, ma dea, I, 9), ma viene descritta anche come donna estremamente intelligente al punto che: « Soleva il Re per suo contento il giorno/farsi seder questa fanciulla a lato» (I, 9) e aveva stabilito: «ch’erede esser dovea del greco impero». In definitiva, quella di Fonte è una principessa che da oggetto diventa soggetto dell’azione narrativa in cui la guerra, presente nella maggior parte dei poemi epico-cavallereschi, viene sostituita da un torneo nel quale si possa mostrare il proprio valore, il proprio coraggio e le proprie virtù cavalleresche senza che questo però nuoccia all’altro considerato come avversario, non come nemico. In più questa principessa è anche erede al trono con buona pace della legge salica.

Floridoro

Per quanto riguarda Floridoro, possiamo prima di tutto segnalare che il suo ingresso sulla scena avviene solo nel canto quinto e, considerata la struttura del poema, che si ferma al tredicesimo canto, salta subito all’occhio che la dovuta centralità attribuita a questo personaggio sia più di forma che di sostanza. Altro elemento significativo di questo personaggio sta nel fatto che di maschile Floridoro abbia solo il nome: viene presentato infatti secondo i canoni stilnovisti della donna-angelo: «L’aer del suo bel viso era sì grato,/sì vago lo splendor de’ bei crin d’oro,/e la sembianza avea tanto divina/ch’ad amarlo ogni cor ben ch’aspro inchina» e ancora «Con un vestir delizioso e vago,/Amor ridea nel suo tranquillo ciglio,/anzi parea d’Amor la propria imago./Lo splendido color bianco e vermiglio/ogni occhio fea di contemplarlo vago;/ogni sua parte, fuor che la favella,/par d’una giovenetta illustre e bella» (V, 45-46). Non avendo ancora raggiunto la maggiore età, Floridoro, per poter partecipare al torneo, deve mentire e si costruisce una falsa identità: si fa chiamare Biancador; singolare è questa insistenza sul bianco che nella tradizione epico-cavalleresca connotava la purezza femminile anche delle cavaliere che abbiamo incontrato da Bradamante a Clorinda.

L’indefinitezza di genere di quest’adolescente è il tratto distintivo di questo personaggio tanto che si potrebbe avanzare l’ipotesi che Moderata Fonte abbia scelto questa caratteristica come chiave di lettura della molteplicità dell’io che Ariosto aveva interpretato attraverso la frantumazione e Tasso mediante l’alienazione. Se Floridoro appare per la prima volta nel quinto canto, già dal secondo conosciamo quelle che, secondo alcuni commenti, sono le reali protagoniste del poema e cioè due gemelle Risamante e Biondaura. Sia Ariosto che Tasso avevano introdotti nelle proprie opere poli opposti di femminilità, Angelica/Bradamante, il primo; Erminia/Clorinda il secondo: donne non consanguinee con caratteristiche opposte, ma non in lotta fra loro. Le due figure femminili, proposte da Moderata Fonte, invece, oltre ad aver condiviso lo stesso utero materno, sono destinate a succedere al trono dell’Armenia, di cui è re il loro padre, solo che Risamante viene rapita in fasce da un mago, che la istruisce all’arte della guerra, e solo da adulta apprende la sua origine, mostrandosi risoluta nel riprendersi ciò che le spetta di diritto, ma incontra la ferma opposizione della gemella che non vuole condividere il regno e anzi riesce ad avere dalla sua parte i migliori guerrieri nella lotta contro la sorella. In definitiva, Risamante è la protagonista delle quête, la ricerca, uno dei topoi dei poemi epico-cavallereschi. Non solo, come Bradamante per il Furioso, anche la guerriera di Fonte è investita del ruolo di generatrice della dinastia a cui è dedicato il poema. Anche in questo caso, però, sono riscontrabili significative differenze: se Bradamante ama Ruggiero e abbandona la guerra in cui è coinvolta per raggiungerlo; Risamante non è innamorata, si sposa con il re di Cipro perché deve, ma si comprende che la sua futura condizione di moglie non sarà di subalternità al marito e che la discendenza non sarà maschile, ma femminile: la coppia avrà, infatti, un’unica figlia, Salarisa.
L’indugio sulla genealogia in tutta l’epica cavalleresca è funzionale al motivo encomiastico, che non manca nel Floridoro, ma anche in questo caso con una particolarità: l’opera è dedicata ai granduchi di Toscana Francesco De’ Medici e Bianca Capello, ma è quest’ultima a esserne la principale destinataria. La granduchessa era famosa all’epoca per la sua raffinata cultura che l’aveva portata a rivestire il ruolo di mecenate. Nel canto terzo dove Risamante conosce il suo destino e quello della sua stirpe si legge, infatti: «D’una delle cui case illustri e degne/che dei CAPPELLI è la famiglia eletta,/verrà costei dalle regali insegne/col tempo in luce e sarà BIANCA detta./ Ella per sua virtù d’ogni altro spegne/la gloria della sua stirpe perfetta,/anzi più accrescer dee col suo valore/de gli avi eccelsi suoi l’alto splendore».

Se, quindi, l’universo femminile di Moderata Fonte è ricco di personalità peculiari per la loro specificità e la femminilità si mostra nella sua indefinitezza e incompiutezza, tanto da lasciare sospesi lettori e lettrici, non è per nulla confortante, invece, l’universo maschile con buona pace di Ariosto che rimpiangeva la grande bontà dei cavalieri antichi. Prima di tutto gli uomini di Fonte non salvano: Nicobaldo chiede aiuto a Risamante per salvare Lucimena, la donna che ama; piuttosto di preoccuparsi della salvezza della sua compagna, Raggidora, il nano africano cerca aiuto senza trovarlo. Se la reputazione di questi uomini poco virtuosi per i canoni dell’epoca non viene per nulla riabilitata, non se la passa meglio chi, al contrario, esibisce impulsi sessuali violenti e distruttivi: è il caso del re Acreonte che, vantandosi delle proprie prodezze sessuali, di notte si reca dalla donna che ha scelto di rapire e violentare. Fonte non perdona e lo fa morire ironicamente per sbaglio e per mano del suo stesso fratello.
Si potrebbe continuare all’infinito a citare episodi e a soffermarsi su aneddoti in quanto Moderata Fonte dimostra di apprezzare la tecnica dell’entrelacement che Ariosto aveva spiegato attraverso la metafora della tela di fili intrecciati, il poema è quella tela e il suo autore li muove per poi unirli e comporre un grande quadro di intrecci collegati e legati fra loro. Sul fatto che l’autrice padroneggi questa tecnica, ci sarebbe da discutere con tutti quei critici che, puntando il dito contro di lei, l’hanno denigrata, considerando l’incompiutezza del suo poema come frutto dell’inesperienza e dell’incapacità della scrittrice di dare organicità alla materia narrata, come, al contrario, aveva fatto Ariosto che aveva aperto centinaia di percorsi, ma poi riunendoli tutti in un centro. Questa linearità e questa simmetria, indubbiamente, sono assenti nel Floridoro, un po’ più di perplessità le nutro, invece, nei confronti della presunta incapacità dell’autrice di padroneggiare la suddetta tecnica narrativa tanto da indurmi a pensare che ci potrebbe essere un’intenzionalità nel decidere di non concludere, soprattutto se si considera il punto in cui il poema si è interrotto e cioè quando Risamante sconfigge la sorella Biondaura e deve decide cosa farne di lei. La soluzione logica sarebbe stata appunto quella di eliminarla, affermando, o meglio riaffermando, la propria identità e diventando finalmente ciò che la protagonista doveva essere, ma come avrebbe potuto farlo Risamante senza lacerarsi, senza perdere un pezzo di sé?

Italo Calvino, nel Visconte dimezzato, risolve il dilemma unità/dualismo attraverso una ricomposizione operata da un terzo soggetto, il dottor Trelawney, ma si sa che per gli uomini è più facile, il loro genere è da sempre un costrutto sociale dominante; per le donne, invece, non è così e quello che Biondaura potrebbe rappresentare, il costrutto sociale femminile fatto di stereotipi, ma non solo, non si può eliminare con un colpo di spada e forse non si può neppure ricomporre per opera del dottor Trelawney di Calvino. Forse Moderata Fonte l’aveva capito e perciò ha deciso di non risolverlo, di lasciare incompiuta la sua opera forse perché non aveva gli strumenti per farlo o forse perché non ha voluto farlo. Sia come sia, quello che emerge è la straordinaria lucidità con cui l’autrice presenta la molteplicità e la poliedricità femminile che si fonda sul contrasto tra il proprio modo di essere donne e il modello culturale dominante, che, volenti o nolenti, ci condiziona al punto che, come suggerisce Fonte, per definire la propria identità non si può fare a meno di confrontarcisi al punto che, come si legge nella penultima ottava dell’ultimo canto: «ciascun prendea/l’una per l’altra e ‘l ver non discernea».

A conclusione di questo affascinante viaggio nella letteratura epico-cavalleresca, filtrata attraverso gli occhi di due protagoniste e di una scrittrice, mi piace raccontare chi mi ha permesso di farlo: mia figlia che, intuitivamente, a sei anni, ha compreso che l’abito fa il monaco e, di conseguenza, ha deciso che non avrebbe indossato indumenti di colori e forme femminili. Per far comprendere le sue ragioni, ha scelto un libro, che ha chiesto di acquistare in duplice copia, una per la biblioteca di casa e l’altra per quella della scuola.

Raffaella Pajalich, Alicia Baladan, La bambina & l’armatura

Il libro in questione è di Raffaella Pajalich e Alicia Baladan, si intitola La bambina & l’armatura (Topipittori, Verona 2021) e racconta di una bambina che un giorno si reca in un negozio di armature. Nonostante le resistenze del proprietario, che sostiene che solo i guerrieri possano averne una, ne sceglie una rossa fiammante, se la fa adattare e decide di metterla subito, chiedendo che le venga incartata la sua vecchia pelle. Ormai cresciuta, la bambina non la indossa più anche se, a volte, sembra di vedere in giro la sua armatura, un po’ usurata dal tempo, meno splendente, ma sempre molto resistente. In fondo ai suoi occhi si può ancora scorgere lo sguardo, mai cambiato, di quella bambina, alta un metro scarso, che aveva capito una grande verità e cioè che per scoprire e diventare quello che sentiva di essere, aveva proprio bisogno di quell’armatura che la proteggesse da quello che gli altri volevano che fosse.

In copertina: Moderata Fonte.

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Articolo di Alice Vernaghi

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Docente di Lettere presso il Liceo Artistico Callisto Piazza di Lodi. Si occupata di storia di genere fin dagli studi universitari presso l’Università degli Studi di Pavia. Ha pubblicato il volume La condizione femminile e minorile nel Lodigiano durante il XX secolo e vari articoli su riviste specializzate.

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