Accoglienza

Accoglienza: termine avvolgente, che esprime una modalità di relazione fra gli esseri viventi e non solo. Ossia la capacità di creare empatia, di percepire e accettare l’altra/o nella sua complessità: un coacervo di bisogni, luci e ombre, fragilità, ricchezza d’animo, talenti, saperi … Inoltre impone la pratica di un linguaggio lontano dalla violenza e dalla volgarità, contenuto per esempio nel verbo “rottamare”.
Un’esperienza che amplia i nostri orizzonti, le nostre conoscenze, rende più forti, più consapevoli delle proprie potenzialità, più tolleranti anche verso sé stesse/i.
Perché l’altra/o è anche dentro di noi. Si tratta di quella moltitudine di personaggi che alberga, spesso ancora viva e vivace in noi e che si rimette in moto attraverso il ricordo, i link con l’attualità, le emozioni, le sensazioni, le percezioni, il vissuto del quotidiano.

L’emigrazione non ha le sue radici solo nella necessità di soddisfare i bisogni primari e quindi di allontanarsi dalle zone desertificate, dalle carestie, dalle situazioni di povertà, dalle zone di guerra. A volte si parte, ci si allontana dal Paese di origine anche per quel forte desiderio, oserei dire ansia di conoscenza, per avere più possibilità di realizzarsi negli studi, di poter lavorare nel pieno delle proprie capacità e competenze, rapportandosi a chi vive in luoghi con cultura, lingua, religioni diverse, rispetto a quelle praticate. Luoghi in cui, in molti casi, le due categorie filosofico-esistenziali dello spazio e del tempo sono percepite e vissute in modo diverso dal nostro.
Si va per ricercare il nucleo profondo che ci unisce agli altri e alle altre: quei bisogni vitali e affettivi che sono comuni a tutto il genere umano. Chissà, quasi come in un’eterna ricerca di sfidare e superare la paura della morte, ma anche il desiderio di riunirci alla nostra madre terra.

Sono stata un’emigrante di… lusso. Ho insegnato all’estero – dal liceo all’università – e sempre più mi sono resa conto che occorre essere accoglienti, quando il proprio lavoro si svolge a contatto con l’universo scuola e con la complessità delle esperienze che si vivono giorno per giorno. L’insegnamento e l’apprendimento possono avere risultati ottimi se si riesce a stabilire un rapporto affettivamente fluido, di fiducia reciproca, di accoglienza e rispetto dei rispettivi ruoli. Questa modalità vige in qualunque luogo, con qualsiasi persona o gruppo di persone, purché si abbia la duttilità di rendersi conto, di comprendere e accettare la realtà contingente nella quale si opera.
Forse, se non fossi stata capace di accogliere studenti di varie nazionalità, non so come avrei potuto far loro superare i tanti tabù, i luoghi comuni e il timore verso una disciplina creativamente razionale che spesso si intreccia con la filosofia e la ingloba, che possiede un profondo spessore culturale e applicativo, che necessita di rigore intellettuale, come la Matematica.

Al mio rientro in Italia, a metà degli anni Novanta, mi sono interessata attivamente al fenomeno migratorio nel nostro Paese e mi sono adoperata in un compito non facile, quello di cercare di far comprendere come fossero diverse dalle nostre le due categorie spazio-tempo proprie di chi non è “occidentale”. Il tutto per spiegare da cosa dipendesse la cosiddetta lentezza nel modo di lavorare di tante persone provenienti da Paesi lontani. Ho poi messo in moto le mie capacità e competenze nel formulare progetti di formazione. Ho così costituito, insieme ad altre persone di buona volontà, l’associazione culturale no profit “Ida Ferri” e presentato alla regione Lazio progetti che sono stati finanziati dal Fondo sociale europeo. Si è trattato della formazione per immigrate/i nel settore della moda: modellazione, taglio e cucito. Alla fine delle 500 ore di corso, le allieve e gli allievi hanno realizzato un capo femminile rifinito in tutte le sue parti, comprese tasche, asole e bottoni, composto da gonna e giacca, entrambe foderate e finite.
Si partiva dal modello in carta velina e poi… la sfilata finale il giorno dell’esame di fronte alla commissione composta da esperti di Regione, Provincia, Sindacati, Camera di commercio ecc. Indimenticabile trovarsi per tante ore insieme a qualche uomo e tante donne originarie di alcuni Paesi africani e sudamericani con la carnagione che variava nelle diverse tonalità del marrone a partire dal nocciola, e i loro abiti colorati, accompagnate da bimbe e bimbi bellissimi dallo sguardo dolce e fiducioso.

Ho ritrovato, negli anni successivi, alcune di queste donne riunite in cooperative dove mettevano in pratica quanto appreso nel corso di formazione. Erano diventate sarte anche per gli abiti da cerimonia per le bambine. Una grande emozione e soddisfazione!
Ma la mia consapevolezza dell’importanza di formulare progetti di formazione per le cosiddette fasce deboli della popolazione, che dessero possibilità alle donne di inserirsi nel tessuto sociale e produttivo, non si è mai sopita. Quindi, sedici anni fa quando entrai a far parte della Fildis – Federazione italiana laureate e diplomate istituti superiori – proposi ed elaborai un progetto, dedicato alle mamme di bambine e bambini stranieri per l’insegnamento dell’italiano: “La seconda lingua come veicolo di affettività”.
La Fildis di Roma ha portato avanti il progetto. Ma un’altra iniziativa che credo sia degna di nota è l’adozione a distanza di un maestro africano che per un anno potesse garantire l’insegnamento giornaliero a quarantacinque bambine/i orfani che vivevano in Uganda o in Tanzania.

Mi sembra che il mio percorso professionale e umano abbia avuto come uno dei tanti stimoli anche quello dell’accoglienza che mi ha spinto a impegnarmi non solo con le persone immigrate residenti in Italia ma anche nei confronti delle loro famiglie, delle loro amicizie lontane e delle loro giovani generazioni che vogliono studiare e realizzare i propri progetti di autonomia, espressione dei loro talenti.
L’accoglienza fa parte della “struttura” delle donne, evidenziata dalla possibilità di generare. Spesso, purtroppo, soprattutto nel rapporto fra donne, si registrano difficoltà di comprensione, atteggiamenti aggressivi che impediscono la collaborazione, l’empatia. Ritengo che sarebbe necessario riflettere in modo serio e approfondito sul rapporto fra donne senza enfatizzarlo, ma esaminando le tante ombre oltre che le luci. Credo che di questo se ne potrebbe avvantaggiare l’umanità nel suo complesso.

***

Articolo di Gabriella Anselmi

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Docente di matematica e formatrice in Italia e all’estero, presso Istituti Superiori e Università, da sempre attiva nell’associazionismo, e già presidente nazionale FILDIS, è componente del Direttivo della Rete per la Parità, del CNDI, di Toponomastica femminile, della GWI (Graduate Women International) e dell’UWE (University Women of Europe).

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