Il primo convoglio partì da Roma, Stazione Termini, il 19 gennaio del 1946. Non era più un treno di morte come i convogli dei deportati, ma ricostruiva la vita. Nell’immediato dopoguerra, per anni, migliaia di famiglie del centro-nord, per lo più emiliane, romagnole, toscane, liguri e marchigiane aprirono le proprie case a bambine e bambini provenienti dalle zone del Paese più povere e più colpite dalla guerra. Da Cassino bombardata, da Napoli semidistrutta, da Roma baraccata, poi dalle campagne affamate della Puglia e della Sicilia.

Trovarono nelle nuove città cose mai viste: l’acqua corrente nelle case, le lenzuola profumate nel letto, la carne sulla tavola. Ricevettero cure e vaccini. Impararono a leggere e a scrivere.
Quando tornarono a casa raccontarono della prima volta che videro il mare. Del primo gelato della vita. Della cioccolata. Così diversa la vita di un piccolo coltivatore o di un artigiano emiliano – che pure certo non erano benestanti – da quella di un bracciante del mezzogiorno, dove si viveva del lavoro precario di una giornata e si mangiava quando si poteva. A chiamarli “treni della felicità” fu il sindaco di Modena, Alfeo Corassori; a lanciare l’iniziativa furono le donne della neonata Udi, a partire dall’idea di solidarietà laica che animava Teresa Noce, battagliera dirigente comunista e partigiana da poco rientrata dal campo di sterminio di Ravensbrück.
L’idea di organizzare treni che trasportassero il futuro di un Paese da ricostruire, bambini e bambine, in zone più consone dal punto di vista ambientale e climatico, venne a un gruppo di donne che aveva militato nei Gruppi di difesa della donna e che, subito dopo la Liberazione, avevano il loro quartier generale a Milano in via Filodrammatici al numero 5, in uno stabile in cui era anche la sede del Pci. Come testimoniato da Giuseppe Longo, figlio di Luigi e Teresa Noce, che in quello stabile visse i suoi primi momenti italiani dopo il rientro dall’Urss, «quella prima esperienza fu un’iniziativa spontanea, come tutto del resto, si imparava facendo. All’inizio le donne del partito si posero il problema di come aiutare un gruppo di compagni in difficoltà che non sapevano come fare con il freddo e con bambine e bambini e pensarono di mandarli da conoscenti e amici per riscaldarli e farli mangiare; poi la cosa si allargò notevolmente e le/i bambini vennero mandati in Emilia con il treno e da poche decine diventarono migliaia. Questa iniziativa spontanea si differenzia da quello che accadde dopo quando interessò bambine e bambini del Sud perché in questo caso c’era un’organizzazione consolidata alla base con il coinvolgimento del partito, delle organizzazioni sindacali e delle giunte comunali».

A far parte del gruppo delle pioniere, oltre alla madre Teresa Noce, Giuseppe Longo ricorda una decina di donne fra cui Rina Piccolato, Lina Fibbi, forse Teresa Mattei, Maria Maddalena Rossi e Giovanna Boccalini Barcellona: erano le donne della stufa rossa, così soprannominate perché, in quel primo e molto freddo inverno del 1945/46, si rifugiavano spesso nella stanza dello stabile di via Filodrammatici in cui era stata posizionata una stufa rossa. Lì, strette l’una all’altra, imparavano, discutendo e confrontandosi, a gestire le emergenze di una città e di un Paese da ricostruire, per loro la politica era un fare quotidiano e non solo ideologia. Alcune si erano conosciute nel periodo clandestino e avevano condiviso l’esperienza della guerra partigiana, altre si erano ritrovate dopo e avevano contribuito alla nascita dell’Udi, tentando di farla diventare un’organizzazione apolitica. L’apoliticità è un elemento riscontrabile anche nell’esperienza dei convogli per bambine e bambini: se inizialmente furono coinvolte le famiglie di aderenti al Partito, poi l’iniziativa venne estesa a chiunque, nonostante il parere contrario di alcuni dirigenti comunisti.
Sia per le pioniere, sia per le altre donne che si impegnarono successivamente nell’organizzazione dei treni della felicità c’è sempre un incrociarsi di attività nel partito, all’Udi e poi a livello istituzionale prima nella Consulta, poi nella Costituente e, infine, nel sindacato. Indiscutibile è sicuramente la loro competenza politica e organizzativa che, per alcune di loro, si pensi per esempio a Noce e Marcellino, aveva avuto inizio all’estero durante il fuoriuscitismo. Per altre, come Maria Maddalena Rossi e Giovanna Boccalini Barcellona, ad esempio, la guerra partigiana era stata fondamentale, ma non solo. Per Giovanna Boccalini Barcellona l’organizzazione di esperienze simili a quella dei treni della felicità era iniziata durante i primi anni Venti quando, ventenne, si era impegnata come educatrice in colonie estive per bambine/i bisognosi e malati organizzate dalla Giunta Comunale socialista lodigiana presieduta dallo scultore Ettore Archinti.

L’iniziativa milanese fu un’esperienza molto importante e formativa e «la risposta fu al di là di ogni legittima speranza – si legge nella prefazione di Miriam Mafai al libro dell’antropologo Giovanni Rinaldi I treni della felicità, edito da Ediesse – tanto generosa che si decise di estenderla e radicarla nel Mezzogiorno. (…) Solo nei due inverni immediatamente successivi alla fine del conflitto, migliaia di bambini lasciarono le loro famiglie per essere ospitati da altrettante famiglie contadine, nei paesi del reggiano, del modenese, del bolognese.
Lì vennero rivestiti, mandati a scuola, curati», in cambio di niente, grazie anche all’appoggio del Pci, dei Cln locali, delle sezioni Anpi, delle amministrazioni e della popolazione in genere. Un numero sorprendente, in tutto 70mila.
La macchina organizzativa era veramente efficiente: dopo aver censito le bambine e i bambini da far partire, mediante una rete capillare di volontarie che spesso si recavano personalmente nei luoghi più duramente colpiti dalla guerra e dalla miseria, era necessario provvedere alla loro cura, alla vaccinazione, al taglio dei capelli per debellare i pidocchi, alla fornitura di indumenti indispensabili per il viaggio reperiti mediante raccolte straordinarie coordinate dall’Udi.
L’aiuto offerto dalle Ferrovie fu determinante sia per sostenere le spese del viaggio, sia per preparare piccole razioni di generi alimentari da consumare durante il trasferimento. L’accoglienza poi nelle stazioni di arrivo era quello che maggiormente impressionava bambine e bambini: la musica delle bande dei tramvieri o dei ferrovieri e poi il sindaco con le Giunte comunali al completo e tanto calore e affetto delle donne dell’Udi e delle famiglie affidatarie.
Seguiva poi lo smistatamento a cura dei comitati locali che supervisionavano anche l’inserimento, organizzavano le attività e mantenevano i contatti con le famiglie d’origine.
Occorreva superare pregiudizi e paure: «Andate in Alta Italia? Attenti, che quando arrivate i comunisti vi trasformano in sapone!» Allora spaventata dissi: «Io non ci vado più». Mio fratello e mia sorella invece, che erano più piccolini, dicevano: «Andiamo, andiamo col treno! Non l’abbiamo mai preso il treno». Luigina, 13 anni, Lazio. Da vincere c’erano le resistenze delle famiglie d’origine spaventate da una certa propaganda che inculcava l’idea che la prole venisse spedita in Russia oppure mangiata dai comunisti o chissà cosa. Poi però figlie e figli tornavano a casa spesso guariti dalle patologie di cui soffrivano prima di partire e raccontavano di aver vissuto in un altro mondo, in una favola. «Mi sembrava di essere in una favola, dentro quel treno. Vedevo tutte queste luci nel mare che rispecchiavano, e io non potevo riuscire a capire che cos’erano, perché non avevo mai sentito che c’era il mare». Erminia, 7 anni, Puglia.
Per molte e molti di loro la permanenza durava dai 4 ai 6 mesi, ma poteva protrarsi per anni e il ritorno alla famiglia d’origine non era facile perché significava tornare in una condizione di estrema povertà, tanto che chi viaggiava con i treni della felicità spesso ritornava appena possibile presso le famiglie affidatarie, magari alla ricerca di un lavoro che non trovava nella propria terra d’origine, dimostrando come certi legami di solidarietà e condivisione non si spezzano, ma diventano radici: una vincente catena di solidarietà.
Dopo il periodo 1945/1947, l’idea fu replicata in successive situazioni di emergenza: nel 1950 per lo sciopero di San Severo, che portò all’arresto di molte coppie di braccianti, vittime della repressione di Scelba, costretti a lasciare soli le proprie figlie e figli; e poi nel 1951/52, per bambine e bambini del Polesine alluvionato. Si intrecciarono non solo storie pratiche di soccorso, ma storie emotive di relazioni e di affetti che poi durarono nel tempo. Storie di chi sapeva costruire comunità.
La vicenda dei treni della felicità è straordinaria al punto da sembrare oggi frutto di fantasia, ma è assolutamente vera e fa parte, per fortuna, della nostra storia. «Questo è un paese che ha bisogno di ricordarsi che ha fatto delle cose bellissime». (Luciana Viviani in Pasta nera, documentario del regista Alessandro Piva). Il suo essere straordinaria sta nell’aver messo in moto energie nuove e nell’idea che fare politica significhi impegnarsi praticamente per il miglioramento delle condizioni di vita delle altre persone senza ideologismi, sterili polemiche e inutili bagarre.
Come in tutte le migrazioni, anche quella promossa dai treni della felicità permise l’incontro di due Italie attraverso lo scambio, la condivisione e il desiderio di donare a chi non aveva più nulla. In un Paese da ricostruire, questa esperienza, dopo la Resistenza, contribuì alla rinascita democratica dell’Italia e fu testimonianza attiva di una nuova cittadinanza che italiane e italiani dopo vent’anni di fascismo stavano scoprendo.

Un insegnamento che acquista ancora più valore in un momento come questo, dove assistiamo allo sbarco di migliaia di disperati e abbiamo dimenticato il valore dell’accoglienza, in anni in cui essere solidali è ben più facile di allora.
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Articolo di Alice Vernaghi

Docente di Lettere presso il Liceo Artistico Callisto Piazza di Lodi. Si occupata di storia di genere fin dagli studi universitari presso l’Università degli Studi di Pavia. Ha pubblicato il volume La condizione femminile e minorile nel Lodigiano durante il XX secolo e vari articoli su riviste specializzate.