«Amiamo la bellezza, senza esagerare, e la conoscenza, senza languori» (Tucidide, Storie, II, 40).
S’inventa un verbo, Tucidide, philokaléo, coniato sul modello di philosophéo, per mettere sullo stesso piano l’amore per la bellezza e quello per la ricerca della verità, della conoscenza e della saggezza insieme, che riassumiamo col nome di filosofia. Lo mette al primo posto, anzi, l’amore per la bellezza, nel celebre epitafio. In quel discorso, pronunciato in onore dei caduti nel primo anno della guerra contro Sparta, Pericle tesse l’elogio della costituzione di Atene e della civiltà che in quella città è si è sviluppata fino a diventare modello per il mondo a venire. Del resto, tra le prime cose che chi studia il greco impara, c’è uno strano vocabolo, kalekagathía, nato dalla fusione di due aggettivi, bello e buono: per i Greci, è impossibile essere belli senza essere buoni (cioè forti, valorosi e di nobile sentire), perché la bellezza interiore si riflette sull’aspetto esteriore e, d’altra parte, la cura del corpo non può essere disgiunta da quella della mente. Non per niente nell’Iliade l’unico personaggio su cui si abbattono insieme lo scettro di Odisseo e le risate dei compagni d’arme è quel Tersite che, solo, osa esprimere la stanchezza di una guerra combattuta nell’interesse di pochi: ma Tersite è brutto e deforme, perciò le sue parole sono sbagliate, anche se il re di Itaca gli riconosce buone doti oratorie: «Tersite soltanto strepitava a non finire, conosceva tante parole, ma le usava senza garbo per insultare i re […] era l’uomo più brutto che fosse venuto a Ilio: storto, zoppo, le spalle curve cascanti sul petto, la testa a pera coperta da un po’ di peluria» (Iliade, II, 212 – 219).
Nella Grecia antica, infatti, la bellezza non è la principale qualità che rende desiderabile una donna, ma è un valore assoluto e non conosce differenze di genere: lo dimostrano le sculture che idealizzano il corpo maschile, soprattutto, facendone modello di equilibrio e di armonia, alla pari di un tempio, quale il Partenone.
Con Elena “la bellezza si è fatta carne”. In altri termini, Elena rappresenta l’unica incarnazione di quel modello ideale, che donne e uomini mortali non possono eguagliare e che proprio per questo sempre vagheggiano. Figlia di Leda, sposa di Tindaro e di Zeus, che ha assunto per l’occasione le forme di un cigno, Elena nasce da un uovo ed è tuttavia una donna, con il corpo, i sentimenti, le fragilità, i desideri delle altre donne. È questo che ne fa una figura capace di ispirare invenzioni poetiche e letterarie sempre nuove e un personaggio mutevole come sfinge, più interessante della sua versione semidivina.
Come semidea Elena era venerata, nella regione di Sparta, dalle giovani donne ed era oggetto di culto e di riti iniziatici che contemplavano l’eros omoerotico, e preludevano al matrimonio. È del VII secolo a.C. il testo più antico che ne conserva traccia: il partenio I di Alcmane, un canto corale in cui gruppi di ragazze gareggiano in bellezza, ma anche nel canto, nella danza e nella corsa, guidate dalle loro corifee – oggi diremmo le loro “capitane”. Nello stesso contesto storico-culturale, secondo gli studi antropologici, era diffusa l’usanza del ratto della sposa, che si ritiene intesa a “giustificare” l’abbandono della casa paterna da parte della fanciulla e l’accettazione della sua perdita da parte dei genitori; nonché a dimostrare il coraggio e il valore dello sposo. Un’usanza che può prefigurare la moderna fuitina – certocaratterizzata da motivazioni economiche e sociali diverse – in quanto, come questa, metteva le famiglie degli “innamorati” davanti al fatto compiuto.
Tutti conoscono, in contesto romano, la leggenda del ratto delle Sabine. Meno noto è il mito che racconta come Castore e Polluce, i Dioscuri, celebri gemelli fratelli di Elena, rapissero le figlie di Leucippo, loro cugine. Elena stessa, quando era ancora quasi una bambina, era stata rapita da un Teseo già cinquantenne, con la complicità di Piritoo, cui l’eroe ateniese aveva promesso in cambio il suo aiuto per il progettato ratto di Persefone.

Il tema del ratto è quello che permette la connessione tra Elena di Sparta ed Elena di Troia, due figure solo parzialmente sovrapponibili. Il racconto omerico, infatti, attribuisce interamente a Paride la responsabilità di aver portato via la moglie a Menelao, approfittando della sua assenza, e minimizza quella di Elena, colpevole tutt’al più di essersi lasciata sedurre dalla sua bellezza – la dote principale, o forse unica, anche del principe troiano – e attrarre dai doni magnifici che lui le ha offerto; nonché dal lusso tutto orientale della nuova vita che le ha promesso. Elena è dunque, come tutte le donne, per sua natura incapace di resistere a certi allettamenti; mentre Paride ha tradito le sacre leggi dell’ospitalità, la fiducia e insieme i diritti di un marito. È interessante ricordare che la legislazione ateniese sull’adulterio, risalente a Solone, prevedeva la morte per chi seducesse la moglie di un altro, minando in maniera irreversibile il rapporto tra i coniugi, e solo una multa per chi la possedesse senza il suo consenso, fatto episodico e sanabile.
Elena, dunque, si trova ad essere, senza volerlo, al centro di eventi giganteschi che la trascendono: è la causa oggettiva della guerra di Troia, i pensieri e gli sguardi di tutti sono rivolti a lei, e ciò ne fa indiscutibilmente l’eroina femminile dell’Iliade, come Penelope lo è dell’Odissea.
Nessuna accusa esplicita, nei suoi confronti, tuttavia, da parte delle donne troiane, neppure di quelle, come Ecuba e Andromaca, che della guerra pagano il prezzo più alto; che anzi la accolgono accanto a loro, alla fine del poema, a piangere sul cadavere di Ettore. Nessuna accusa neppure da parte degli anziani di Troia che osservano la battaglia dagli spalti e, vedendola arrivare, commentano sottovoce: «Nessuno sdegno che Troiani ed Achei schinieri robusti così a lungo patiscano per una tale donna: tanto fortemente nell’aspetto somiglia alle dee immortali. Ma anche se è così bella, magari se ne tornasse sulle navi, per non continuare a portare sventura a noi e ai nostri figli»; lo stesso re Priamo, suo suocero, l’accoglie affettuosamente e la rassicura: «tu non hai colpe, per me, gli dei sono colpevoli; sono loro che hanno scatenato contro di me la luttuosa guerra degli Achei» (Iliade, III, 156 – 165).
A conferma del fatto che Elena è solo uno strumento manovrato da forze che la sovrastano, il poeta pone alla fine dell’episodio la scena in cui Afrodite ordina senza mezzi termini alla donna recalcitrante di raggiungere il letto di Paride, dopo averlo sottratto al duello con Menelao, vanificando l’accordo tra i due schieramenti che avrebbe dovuto risolvere le sorti della guerra: «Andò a chiamare Elena, con la mano la dea le prese il velo profumato, e le parlò: “Vieni, Alessandro t’invita a tornare a casa, è nel talamo, sul letto rotondo, luminoso di bellezza nelle sue splendide vesti, non diresti che ritorni da un duello, ma che vada a una festa o che riposi dopo la danza”» (Ivi, 390 – 394).
Elena non può che obbedire, nonostante il disprezzo esplicito per la viltà del secondo marito, che sembra esserle venuto a noia: sono ormai passati dieci anni da quando lasciò Sparta per seguirlo.
Persino Ettore riserva a Elena parole garbate e gentili quando, nel canto VI, va a sollecitare il fratello perché torni in battaglia, apostrofandolo duramente «Paride funesto, bello d’aspetto, pazzo per le donne, ingannatore» – con parole molto simili a quelle che userà Diomede nell’XI canto: «arciere dai riccioli belli, che stai sempre a fare gli occhi dolci alle donne».
Ma, anche se gli altri non la condannano, Elena biasima il suo comportamento, la sua follia, maledice il giorno in cui lasciò la sua città, insieme a marito, figlia, familiari e compagne; arriva a invocare la morte come punizione e liberazione dalla vergogna. E si definisce più volte “cagna” o “faccia di cane”, epiteti offensivi spesso rivolti alle donne, che fanno riferimento alla loro debolezza, alla loro mancanza di pudore: una caratteristica che esse avrebbero in comune, per natura, con il cane, animale caratterizzato, per i Greci, da una sessualità sfrenata, che dimentica facilmente la fedeltà verso il suo padrone per seguirne uno nuovo, capace di sedurlo con doni irresistibili.
Nei testi successivi all’Iliade il racconto su Elena oscilla tra la fuga consenziente e il rapimento. La sua figura ha un’importanza limitata nell’Odissea: quando Telemaco, nel canto IV, arriva a Sparta alla ricerca di notizie del padre, la trova tranquilla al suo posto di regina, accanto a Menelao, saggia ed esperta di farmaci che leniscono il dolore. Pone però qualche interrogativo l’osservazione che fa Penelope a suo riguardo, per giustificare la sua riluttanza a riconoscere il marito: «Non arrabbiarti con me, non mi condannare, se non ti ho accolto subito con affetto, appena ti ho visto: ho sempre avuto paura che qualcuno venisse qui e mi ingannasse con i suoi discorsi. Molti infatti cercano il modo di trarre guadagno con astuzie malvage. Neppure Elena Argiva, figlia di Zeus, si sarebbe unita in amplesso d’amore con uno straniero, se avesse saputo che i bellicosi figli degli Achei l’avrebbero riportata indietro in patria, nella sua casa. Certamente un dio la indusse all’atto indecoroso, ma prima, nel suo animo, non comprese di essere stata accecata, con conseguenze funeste per noi tutti» (Odissea, XXIII, 218 – 224).
Non posso dilungarmi qui ad analizzare quella variante del mito, risalente ad Esiodo, ma resa celebre dalla Palinodia di Stesicoro nel VI secolo, e poi ripresa da Euripide, che racconta di un’Elena doppia: quella vera, in carne e ossa, rimane per più di un decennio ad attendere il legittimo sposo sotto la protezione di un re d’Egitto, mentre il suo fantasma segue Paride a Troia.
Come altri personaggi dell’epica, infine, anche Elena nel corso del V secolo viene reinventata, con esiti spesso sorprendenti; e offre addirittura l’occasione per uno straordinario esercizio retorico al sofista Gorgia, che si diverte a dimostrarne l’innocenza. Mi preme invece ricordare come cambi la sua figura nella lirica arcaica. In Alceo e soprattutto in Saffo, Elena smette di essere una femmina volubile, pronta a cedere al primo venuto, per poco che il marito la lasci senza controllo (e senza sesso); e diventa invece una donna capace di riconoscere il suo desiderio e scegliere di seguire colui che ama, liberandosi in un sol colpo dei ruoli che la società le impone, di figlia, di moglie, di madre: «Alcuni dicono che la cosa più bella / sulla terra nera sia una schiera di cavalieri, / altri di fanti, altri di navi; io invece dico che è colui / che si ama. / Ed è facile farlo capire a chiunque: / infatti Elena, che superò tutti i mortali per bellezza, / lasciato il marito assai valoroso,/se ne andò a Troia per mare/né della figlia né dei cari genitori/si ricordò più, ma la sviò […]». Dopo la lacuna in cui si ipotizza ci fosse il nome di Afrodite, l’ultima strofa recita: «E io ora, ricordando Anattoria / che è lontana, / vorrei vedere il suo amabile passo / e la luce che le brilla sul viso/piuttosto che i carri di Lidia/e i fanti armati di tutto punto» (Saffo, fr. 16 Voigt).
I commentatori osservano la posizione di rilievo che assume in quest’ode il pronome “io”: è una voce di donna ad affermare una nuova consapevolezza di sé e a sovvertire la scala dei valori tradizionali. Una sorta di “io faccio l’amore, non faccio la guerra”, che può apparire sorprendente nel VII secolo a. C. Nello stesso periodo Archiloco, soldato a tempo pieno e poeta per amore del vino, raccontava senza vergogna di aver scelto la vita sacrificando l’onore. A me piace sottolineare come Saffo prenda in prestito il mito della donna più bella che s’innamora del più bello degli uomini e tutto dimentica, per raccontarci con delicatezza il desiderio struggente di rivedere la ragazza amata.
In copertina: Elena e Paride, cratere a figure rosse, circa 380-370 a.C.
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Articolo di Gabriella de Angelis

Docente di latino e greco nei licei e nei corsi dell’Università delle donne Virginia Woolf, si è dedicata alla rilettura dei testi delle letterature classiche in ottica di genere. All’Università di Aix-Marseille ha tenuto corsi su scrittrici italiane escluse dal canone. Fa parte del Laboratorio Sguardi sulle differenze della Sapienza. Nel Circolo LUA di Roma intitolato a Clara Sereni, organizza laboratori di scrittura autobiografica.