L’italiano è una lingua ricca e precisa. Le parole hanno un valore. Riappropriarsi del senso del linguaggio, dei registri linguistici e delle relazioni che esso sottende è una delle sfide più urgenti cui ci troviamo di fronte.
Colpisce la leggerezza – massima nei post in rete – con cui gli insulti vengono lanciati addosso; tanto leggero è l’atteggiamento con cui un insulto viene scagliato, tanto pesanti e profonde ne sono le conseguenze. Quando lo si fa notare, spesso le reazioni del mittente sono di sorpresa: «ma era per scherzare», «non era mica per offendere», «fattela ‘na risata» e amenità del genere.
L’insulto inquina il dibattito pubblico e le relazioni personali; distrugge il rispetto, senza il quale la convivenza civile è impossibile. ll “Barometro dell’odio” – così lo definisce Amnesty International – nei 23 giorni dell’ultima campagna elettorale del 2018 ha provato a intercettare messaggi offensivi, razzisti e discriminatori affidati alla rete da candidate e candidati.

Queste le indicazioni più significative emerse: 129 candidati unici, di cui 77 poi eletti, sono stati in grado di generare più di un messaggio di odio all’ora; il 91% delle dichiarazioni ha avuto per bersaglio i migranti; il 7% delle dichiarazioni ha incitato direttamente alla violenza; il 32% delle segnalazioni ha veicolato fake news e dati alterati.
Una recente ricerca dell’istituto Cattaneo di Bologna afferma che l’Italia è il Paese d’Europa che esprime il maggiore livello di ostilità verso l’immigrazione.
Si diffondono parole d’ordine esasperate, si citano dati farlocchi, si gonfiano singoli episodi, si spargono falsità, contando sia sulla credulità dei più sia sul fatto che i controlli di verità richiedono tempo e fatica. Le false emergenze diventano certezze, discorso quotidiano e di qui business per molti, successo elettorale per alcuni.
Per uscire dallo scivoloso terreno irrazionalista e viscerale su cui si vuole portare l’opinione pubblica, cerchiamo ancoraggio nella realtà, nei dati empirici che oggi è facile rintracciare – se solo si ha il desiderio di cercarli.
L’emergenza (pericolo imminente, minaccia incombente) non è nei numeri ma nei racconti. Carta di Roma lo ripete da dieci anni: la ricerca della verità sostanziale dei fatti, con l’uso corretto delle parole e l’obiettività dei numeri sono il solo argine alla costruzione distorta della realtà che gli “spaventatori” ripetono ogni giorno. È una questione di dignità, di credibilità, di sopravvivenza del mestiere di giornalista. Se otto su dieci (Doxa, dicembre 2017) è la percentuale della popolazione italiana che si dice preoccupata per l’immigrazione, data una situazione reale che lo giustifica solo in piccola parte, molto si deve a un’informazione che tende a etichettarla come indesiderata.


In dodici anni i riferimenti all’immigrazione nei Tg sono aumentati di oltre dieci volte (Rapporto immigrazione, 2017). Il 34% dei servizi telegiornalistici è dedicato a questioni che mettono in relazione immigrazione, criminalità e sicurezza. «Quante sono le persone immigrate?» Risposta: 30% (in realtà 7%). «Quante quelle di fede musulmana residenti in Italia?»: il 20% è la risposta media della gente intervistata. Il dato reale è 3,7% (Indice Ipsos-Mori). La maggioranza della gente che migra non arriva in Italia. L’Oscad (Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori) ha registrato che tre reati discriminatori su quattro hanno a che fare con la razza: nel 2019, dicono i dati, si sono registrati 969 reati, ossia 2,6 al giorno, uno ogni nove ore. Crescono gli hate crimes, crescono gli incitamenti alla violenza.

Non esistono parole neutre. Per il/la linguista è molto interessante ad esempio il modo in cui viene usato l’aggettivo “nostro” nei discorsi di odio: si dice i “nostri” porti, le “nostre” donne. Quanto più la forma dell’Altro è negativa, tanto più quella che diamo a noi ne trae beneficio. È come se chi usa i discorsi di odio facesse riferimento a una costruzione semantica simile, omogenea, mentre chi si oppone ai discorsi di odio avesse un “noi” frammentato. Chi odia è coeso anche dal punto di vista linguistico, mentre chi si oppone ai discorsi di odio non lo è. «Aiutateli a casa loro», «prima gli italiani», «padroni in casa nostra». Sono solo alcuni degli slogan tanto diffusi in questo periodo di cattiveria e machismo istituzionale.
Semplificano un mondo molto più complesso, fatto di vite, di persone e di grandi fragilità. Incattivito dalle crisi economiche. Rimpicciolito dalla globalizzazione. Si usano e si reiterano termini come “minaccia”, “invasione”, “aggressione”, “contaminazione”. Della nazione, della razza. Vi paiono davvero concetti superati? Davvero siamo stati vaccinati dall’esperienza?
Il tema della migrazione da alcuni anni domina il dibattito politico in nome di un’emergenza permanente, un ossimoro che da solo svela la propria illogicità. La vera emergenza che in questo momento il nostro Paese sta affrontando è uno scarto sempre più preoccupante e più ampio tra realtà e percezione. Chi controlla le percezioni controlla il Paese. Lo vediamo in Europa, lo vediamo negli Stati Uniti. Una tetra battaglia che serve a far vincere le campagne elettorali, non a far progredire le nazioni.
Lo straniero è ben accolto se è ricco e se viene da un contesto affascinante, anche se diverso dal nostro. L’immigrato, invece, essendo povero viene considerato un individuo senza status, senza identità, relegato al livello più basso nella scala sociale. Il primo ci visita, il secondo ci assedia. Il primo è messo in correlazione con il guadagno (turismo, occupazione, business); il secondo con l’insicurezza.

Nel 2018 (dati di Amnesty International) le parole più usate dalla stampa italiana per raffigurare le/i migranti sono state clandestini, irregolari, profughi, insieme al ricorso alla disumanizzazione con l’utilizzo di appellativi quali risorse, bestie, vermi. Dopo ogni naufragio le persone annegate vengono definite vittime, quelle salvate sono etichettate come clandestine. La/il clandestino è intrappolato in un marchio, nonostante non si tratti di una qualità individuale ma di una definizione giuridica. «Quarantanove migranti sono stati recuperati nel Canale di Sicilia. Verranno fatti sbarcare e trasportati a Lampedusa per una prima identificazione. Gli aventi diritto d’asilo verranno redistribuiti nei diversi paesi Ue, gli altri rispediti nei Paesi di provenienza».
Attenti alla scelta e ai modi dei verbi: sono passivi. Adatti per le cose, non per le persone. E una sosta forzata diventa un bivacco, le stazioni vanno ripulite o bonificate.
Migranti economici: termine che non viene mai usato per i cinque milioni di italiani residenti all’estero.
Morire di bombe no, morire di fame sì.
Una contrapposizione insensata, ma più facile così: tra le persone migranti ci sono quelle buone (rifugiate) che vanno protette e accolte, e quelle meno buone (migranti economiche) che possiamo anche respingere e lasciare al loro destino.
Non c’è mai un solo fattore che spinge a emigrare. La dizione assomiglia più a un’etichetta rassicurante di cui i sistemi giuridici occidentali hanno bisogno piuttosto che a un modo di cogliere quello che succede. Nella realtà l’asilo politico è solo un modo per gestire i flussi migratori. Noi, nella convinzione che il mondo funzioni in base alle categorie che abbiamo creato, non ce ne accorgiamo.
Pacchia (dal vocabolario «situazione straordinariamente vantaggiosa, condizione di vita facile e spensierata»). È la parola che ha aperto la strada al rifiuto senza precedenti da parte delle autorità di accogliere le persone salvate dai naufragi nei porti italiani. È la bufala degli alberghi di lusso, degli smartphone di ultima generazione; è la polemica strumentale sui trentacinque euro al giorno. «Mi dispiace mamma. Il mio viaggio all’estero non è andato bene. Ti amo così tanto! Sto morendo perché non posso respirare». È il contenuto di un messaggio inviato da una delle vittime che si trovavano all’interno di un Tir arrivato in Gran Bretagna dal Belgio. Nel container frigorifero del camion sono stati ritrovati i cadaveri di trentanove migranti. E quante altre vittime nei taxi del mare?
Nelle campagne calabresi, nella piana pugliese la pacchia dei braccianti neri vive in casolari abbandonati, edifici diroccati, dove si dorme per terra, dove non c’è acqua né luce né servizi igienici; lavorano in nero, otto, dieci e anche più ore al giorno per pochi euro, con percentuale per il “caporale” italiano; molta frutta e verdura sulle nostre tavole arriva da lì.

Aumentano in Europa i casi di attivisti arrestati o processati per aver aiutato migranti e rifugiati (i cosiddetti “delitti di solidarietà”), spesso sulla base di accuse più gravi rispetto al passato come l’appartenenza a un’associazione criminale, lo spionaggio o addirittura il terrorismo. La denuncia è contenuta nel report When witnesses won’t be silenced: citizens, solidarity and criminalization pubblicato dall’Institute for race relations.
«Oggi la solidarietà verso i migranti è considerata un reato. Se salvi una persona che sta annegando dalle acque gelide, diventi un trafficante di vite umane. Se apri un rifugio per gli emarginati in una stazione ferroviaria abbandonata, diventi un intruso. Se offri cibo agli affamati, stai minacciando gli standard igienici. Se critichi le detenzioni sommarie da parte della polizia, hai un comportamento offensivo. Se fornisci docce gratuite, stai violando la legge urbanistica. Se protesti contro una deportazione forzata su un aereo, stai ostacolando il volo. Se osservi un’espulsione illegale da una casa occupata, vieni arrestato. Se ti opponi a leggi repressive, sei un terrorista». (Pubblicato da Transnational Institute Amsterdam, settembre 2018).
Il termine “buonista” entrò nel vocabolario italiano della neopolitica nel 1995 (era stato coniato qualche anno prima da Ernesto Galli della Loggia per dipingere il carattere di Walter Veltroni). La consacrazione arrivò tre anni dopo, con l’acquisizione da parte della Treccani.
L’albergatore di Reggio Emilia non assume un cameriere perché è nero? Ha fatto bene, è tempo di dire basta a questo strisciante buonismo. Povia fa una canzone xenofoba? Macché, è solo difesa contro i buonisti. Le indagini sulle Ong? Uno schiaffo ai buonisti. La colpa del terrorismo internazionale? Dei buonisti. E così via.
Esploso con la questione migranti questo sberleffo, storpiatura dispregiativa di “buono”, ora viene usato in modo convulso (e confuso) per attaccare chiunque si esponga in modo ragionevole rispetto a qualsivoglia questione. È il nuovo manganello. C’è analogia con il pietismo di epoca fascista, quando di pietismo veniva accusato chiunque simpatizzasse con gli ebrei.
Da parte dei cattivisti e degli aggressivisti è il modo di far passare la bontà per ipocrisia. Come se il buonista recitasse, predicasse bene per status quo o per fare marketing di se stesso. Io credo che la società stia precipitando in un grande equivoco che ha a che fare con la disabitudine alla decenza.
L’altro equivoco è l’attacco alle parole “divisive”. Altro che buonismo: le parole servono anche a dividere i campi, a fondare paletti. Se respingi le vittime, se sei indifferente, allora sei complice dell’ingiustizia. È arrivato il tempo di decidere da che parte stare. Radici cristiane e difesa delle medesime, i crocefissi usati come corpi contundenti La maggioranza delle persone migranti è di religione cristiana: il 53% (ortodossa in particolare). Di religione musulmana 30%. Buddista, induista e altri credi orientali 15%.

Da tempo le destre, per calcolo o vocazione, cavalcano in modo demagogico il tema della sicurezza sovrapponendolo a quello delle politiche migratorie. Spesso la sinistra ha cercato d’imitarle o se ne è fatta ricattare, mostrando così la propria subalternità culturale. L’ossessione per la sicurezza mina la fiducia negli altri, la solidarietà; crea un clima di tensione e sospetto reciproco, alimenta nostalgie di affidamento all’uomo forte, finisce per minare i fondamenti stessi della vita democratica, diffondendo in molti modi sottili la nostalgia per un mondo in cui regnava sovrano l’ordine.

Anche a questo proposito domandiamoci: sicurezza di chi, in un Paese che ogni anno vede diminuire il numero di reati, dagli omicidi alle rapine? Stando ai numeri siamo diventati uno dei Paesi più sicuri dell’Unione Europea: di anno in anno sono diminuiti tutti i reati (ad eccezione del femminicidio). Eppure cresce la paura, favorita da politica e media: nel 2017 il tema “criminalità” è comparso nel 17,2% dei programmi della principale Tv francese, nel 26,3% di quella britannica, nel 18,2% di quella tedesca e nel 36,4% dei cinque principali telegiornali italiani.
Poi ci sono gli slogan. I migranti ci costano, non possiamo permetterceli. Invasione nelle vostre case? E chi li accudisce, gli anziani? Invasione nelle campagne? E chi li raccoglie, i pomodori? Invasione nelle fabbriche? E chi li fa, i lavori pesanti?
La spesa pubblica dedicata all’immigrazione degli stranieri in Italia costa allo Stato circa 17,5 miliardi di euro. Gli immigrati regolari presenti generano entrate per lo Stato per circa 19,2 miliardi di euro (123 miliardi è la ricchezza che producono). Un saldo positivo, dunque, di circa 2 miliardi di euro a cui vanno sommati i circa 6 miliardi di euro che gli stranieri inviano ai loro Paesi (si aiutano a casa loro, oltre ad aiutarci a casa nostra).

Vince chi parte, perché migliora le proprie condizioni di vita. Vince chi ospita, perché la società e l’economia si alimentano di nuova linfa. Se poi chi ospita – è il caso dell’Italia – si trova con una popolazione che invecchia, l’immigrazione rappresenta una delle più efficaci valvole di salvezza, perché assicura la sostenibilità economica e rallenta o addirittura inverte il regresso demografico.
«Vengono nel nostro Paese per delinquere». È un tema molto sentito dall’opinione pubblica, riaperto da ogni fatto di cronaca (in cui si cita la nazionalità di chi delinque solo nel caso che sia un migrante).
Cerchiamo i dati. Le statistiche evidenziano che c’è un numero elevatissimo di popolazione straniera in carcere per reati di piccola entità, per i quali mediamente quella italiana usufruisce di pene alternative. Si tenga presente, poi, che tra di loro il 60% è in attesa di giudizio, mentre tra la parte italiana il dato scende al di sotto del 40%.
Poi c’è un pesante 20% di migranti il cui unico reato è quello di immigrazione clandestina. A noi rimangono altri primati: delinquenza organizzata, rapine, omicidi e stupri.
Un esempio mi sta a cuore. Lo suggeriva il buon senso, lo confermano i dati: non c’è alcuna relazione tra il passaporto e lo stupro. Non c’è una nazionalità, un’etnia, una religione, per cui la violenza sessuale sia più frequente che per altre. È la percezione a essere diversa. Se l’autore della violenza o della tentata violenza è straniero, le donne italiane denunciano sei volte di più. Stupri e femminicidi vengono raccontati diversamente a seconda degli autori.
Si dice: vengono tutti qui. Bastano pochi semplici numeri per smentire la narrazione secondo cui l’Italia sarebbe il Paese europeo più pressato dagli arrivi via mare di migranti. Nella prima metà del 2019 il numero di migranti che hanno raggiunto le coste italiane è stato di 2.779. Cinque volte maggiore il numero in Spagna (13.263) e sei volte e mezzo in Grecia (18.294). Se osserviamo la proporzione della popolazione, anche la piccola Malta ci supera, con 1.048 migranti sbarcati su 440mila abitanti.
Nonostante le percezioni distorte e gli allarmi quotidiani il nostro Paese è tra gli ultimi in Europa per incidenza del numero di rifugiati sul totale della popolazione.
Il Paese che ospita più rifugiati ogni mille abitanti è la Svezia con 23,4, seguita da Malta con 18,3. L’Italia è undicesima con 2,4.


Se si parla poi di stranieri/e che risiedono nel Paese in maniera stabile, l’Italia ospita cinque milioni di immigrati che corrispondono all’8% della popolazione, in linea con i livelli degli altri Paesi europei. Lo Stato europeo che ha più immigrati è la Spagna, dove sono il 10% della popolazione, seguito dalla Germania.
Ci rubano il lavoro: i dati Istat sul mercato del lavoro dimostrano che l’occupazione immigrata e quella autoctona in Italia sono prevalentemente complementari. Negli stessi settori straniera è la manovalanza, mentre italiano è il comparto impiegatizio, o comunque con mansioni più qualificate. Dall’analisi dei settori economici si vede come il peso dell’occupazione straniera cresce in particolare nel settore agricolo (18%) e nelle costruzioni (17%), ossia là dove il lavoro è in prevalenza manuale, non qualificato e faticoso.

Il 74% della collaborazione domestica (in realtà si tratta quasi sempre di donne) è straniero, così come il 56% di badanti e il 51% di commercianti ambulanti. E ancora: il 39,8% di chi si occupa di pesca, pastorizia, cura dei boschi; così come il 30% della manovalanza edilizia e agricola. La popolazione immigrata resta invece esclusa dalle professioni più qualificate e più remunerate.
Per concludere: diversità vale per migranti, per rom, per ebrei. Vale per le donne. La diffidenza per il “diverso”, quando lo si avverte come potenzialmente minaccioso per il proprio benessere e per i propri privilegi, è difficile da combattere perché non è razionale. Per contrastarla esiste solo un antidoto: la conoscenza reciproca.
La domanda più scema che si possa fare è: l’Italia è un Paese razzista? Un interrogativo che nasconde a sua volta una tonalità tecnicamente razzistica, perché tende ad adottare il meccanismo dell’omologazione, trasferendo su un’intera comunità il comportamento di singoli o di gruppi.
Domanda più sensata è: come possiamo combattere i germi del razzismo? Ovviamente avremmo bisogno di narrazioni alternative, e questo dipende non solo dalla politica e dall’informazione ma anche da ciascuno/a di noi. Il linguaggio ci avvelena solo se glielo consentiamo.
Interrogarci sugli automatismi verbali collusi con la violenza, contrastare le cristallizzazioni e i manicheismi provando a chiederci quale prospettiva sottintendono, sottrarci a inerzie linguistiche apparentemente innocue sono sani esercizi di dissenso, pratiche concrete di smarcamento.
Forse costano un po’ di fatica, ma la remunerazione umana è grande. L’integrazione spiegata da un bambino. Vlad, Prima media, Bergamo: «Quando sei stato felice? Quando ho preso 6 in italiano. Che cos’è per te la gentilezza? Quando mi hanno fatto copiare perché prendessi 6 in italiano».
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Articolo di Graziella Priulla

Graziella Priulla, già docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi nella Facoltà di Scienze Politiche di Catania, lavora alla formazione docenti, nello sforzo di introdurre l’identità di genere nelle istituzioni formative. Ha pubblicato numerosi volumi tra cui: “C’è differenza. Identità di genere e linguaggi”, “Parole tossiche, cronache di ordinario sessismo”, “Viaggio nel paese degli stereotipi”.