Da diversi anni la Finlandia è considerata uno dei Paesi più felici e la scuola finlandese si trova sempre ai primi posti nelle classifiche mondiali; già nella scuola secondaria l’italiano è una delle materie di studio, una materia facoltativa scelta in genere da studenti maschi e femmine, in prevalenza, incuriosite e affascinate non solo dalla nostra cultura del passato, ma anche dal paesaggio, dal clima, dall’atmosfera… verrebbe da dire “dalla corporeità” che sognano di trovare nella nostra penisola.
Quando decidono di presentarsi all’università candidate e candidati devono superare, dopo la prova finale a scuola, un successivo esame d’ingresso: i posti sono sempre scarsi, perché è il Ministero dell’istruzione a pianificare il numero di chi, dopo gli studi, troverà lavoro nel campo della traduzione e dell’interpretariato e a decidere, di conseguenza, quante persone ammettere ogni anno. Questo numero, sempre esiguo, che conosce già la lingua, ha intenzione di approfondire la cultura italiana in generale; spesso alcuni corsi sono arricchiti dalla presenza di chi proviene da altre facoltà e nutre interessi particolari, per esempio per il cinema, le arti figurative, la musica; oppure da studenti Erasmus di Paesi della Comunità Europea, a volte invece provenienti da altri continenti, che frequentano per un periodo l’università finlandese e colgono quest’occasione unica di avvicinarsi alla cultura italiana. Chi insegna, dunque, ha il compito importante e gratificante di fare in modo che la formula d’ingaggio del Ministero “ambasciatore/ambasciatrice della cultura italiana nel mondo” non resti soltanto uno slogan.

Sono arrivata ai primi di settembre da una Teheran ancora afosa, piombando in un clima fresco, già quasi autunnale. Ho cominciato il giorno dopo – per gli standard finlandesi ero già in ritardo e mi aspettava un tipo di lavoro completamente diverso dal precedente, il che ha significato, per tutto il primo anno, insegnare durante il giorno e organizzare il materiale nella notte invernale, fortunatamente lunga. Non è previsto, infatti, che chi studia acquisti libri, per cui tutto il materiale è prodotto da chi insegna, utilizzato durante le lezioni e archiviato su un sistema informatico cui gli studenti hanno accesso. Mi sono stati proposti sette corsi, tutti di natura culturale: storia 1 e 2, letteratura 1 e 2, conversazione 1 e 2, più uno da organizzare a mia scelta.

Turun Yliopisto, l’università di Turku, la più antica di Finlandia, occupa una collina dove alcuni edifici del XIX secolo, ancora in legno, dividono lo spazio con costruzioni recenti, in continuo rinnovamento edilizio secondo gli standard più moderni. L’attenzione e la cura non si limitano alle necessità dei laboratori ma sono rivolte anche alle esigenze dell’utenza, costantemente monitorata: dai rilevamenti sulla presenza di spore, causa di allergie, alla verifica della postura sul luogo di lavoro, fino alla prevenzione, con l’offerta di controlli sullo stato fisico o di analisi mediche in loco, rivolte indiscriminatamente a chi lavora e a chi studia. Infine, durante le elezioni vengono installati dei semplici seggi aperti a chi opera in facoltà, per facilitare l’affluenza alle urne.
Vapaan kansan lahja vapaalle tieteelle recita la scritta sull’edificio più alto sulla collina: “un dono del popolo libero alla libera scienza”, un regalo della comunità a chiunque ne voglia usufruire. Il motto più adeguato, per un’istituzione gratuita che incoraggia non solo allo studio, offrendo corsi di ogni genere, ma anche all’autonomia, provvedendo per chi studia un piccolo salario, residenze e pasti a prezzi accessibili.
Ero abituata alle ragazze iraniane vestite di scuro, al vociare di classi numerose, a rapporti che, dopo le prime esitazioni, erano diventati quasi confidenziali, in quella comunità a prevalenza femminile che era la facoltà di lingue di Teheran. A Turku invece regnavano il silenzio, la conversazione a bassa voce, i sussurri in piccoli gruppi; nella mia classe ben attrezzata, ordinata e pulitissima una decina di ragazze e solo un paio di ragazzi prendevano posto senza far rumore, senza guardarsi e senza guardare me, pronti a scrivere appunti secondo il vecchio sistema, con matita e blocco notes, oppure muniti di tablet – una assoluta novità per me che venivo dall’Iran.
Queste classi silenziose erano estremamente esigenti; chi partecipava spesso aveva già esperienza diretta dell’Italia, perché chi termina la scuola talvolta si concede un anno sabbatico, o più semplicemente una stagione, nella nostra penisola, dove chi arriva lavora come ragazza/o alla pari o cameriera/cameriere nei ristoranti durante l’estate. Comunicare dunque non era un problema linguistico, mentre non sembrava facile condividere l’interesse, entrare in sintonia, in breve emozionarsi insieme per far sì che l’oggetto del nostro studio non rimanesse un insieme di nozioni, per quanto correttamente assimilate, ma diventasse parte di un’esperienza più profonda. Per questo ho deciso che il settimo corso, quello a scelta, sarebbe stato di teatro, e non tanto un corso teorico bensì la recitazione di qualche breve pièce, preferibilmente umoristica. Sguardi stupiti, un po’ imbarazzati – nessuno ha mai pensato di recitare, tantomeno in italiano, ma con un po’ di pratica è arrivato anche l’entusiasmo – un entusiasmo finlandese, silenzioso e discreto, un’atmosfera piena di aspettativa.


Provavamo in un vecchio edificio di legno nei pressi del fiume, in una grande sala con il parquet e una stufa di maiolica, ormai in disuso, che troneggiava sulla parete nord. Avevo scelto per loro alcuni testi di Achille Campanile, un autore garbatamente ironico che non avrebbe causato imbarazzo a nessuno, abbastanza semplice da poter essere letto a diversi livelli e divertire sia chi era alle prime armi sia chi capiva meglio i sottintesi della lingua. Anche i costumi erano volutamente semplici, recuperati a casa o in qualche negozio di abiti usati, e riportavano indietro nel tempo, all’atmosfera degli anni ’30. Abbiamo rappresentato questi dialoghi, non senza esitazioni e timori, di fronte a un pubblico ristretto ma partecipe, durante la festa che precede il Natale, un’istituzione tipicamente finlandese: il Pikkujoulu, il piccolo Natale. In Finlandia i Pikkujoulu si susseguono nelle giornate festive di dicembre, non solo tra gruppi di amici, ma anche nelle scuole: il Natale viene celebrato in allegria prima della data istituzionale, che è invece riservata alle riunioni familiari.
L’ambiente del nostro spettacolo era del tutto anticonvenzionale: senza palcoscenico, un drappo sullo sfondo consentiva i cambi d’abito a chi recitava e qualche aggiustamento della scarna scenografia: un ufficio, un viale, un salottino dove, una scena dopo l’altra, attori e attrici recitavano le loro parti. Così la coppia di innamorati de Il Bacio fingevano affettuosità, mentre fuori campo altre due voci ne rappresentavano i pensieri, spesso divaganti; oppure studiosi e studiose incontravano un improbabile, assai mansueto, mostro di Loch Ness, rivestito della tuta, fortunatamente di un bel verde acceso, che rappresenta gli studenti di Italiano all’università.
Allo spettacolo ha fatto seguito un banchetto a base di joulutorttu, le specialità natalizie finlandesi a forma di stella, ripiene di marmellata, seguito dall’arrivo dell’immancabile Joulupukki, il Babbo Natale finlandese con il suo sacco carico di regali – penne, agende, quadernetti e qualche dolciume.
Un’atmosfera calda e amichevole, dove la timidezza era scomparsa per lasciare il posto a un’intimità discreta, delicata come i fiocchi di neve che cadevano senza fermarsi nel pomeriggio invernale, già avvolto dall’oscurità.


Fotografie di Rossella Perugi.
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Articolo di Rossella Perugi

Laureata in lingue a Genova e in studi umanistici a Turku (FI), è stata docente di inglese in Italia e di italiano in Iran, Finlandia, Egitto, dove ha curato mostre e attività culturali. Collabora con diverse riviste e ha contribuito al volume Gender, Companionship, and Travel-Discourses in Pre-Modern and Modern Travel Literature. Fa parte di DARIAH-Women Writers in History. Ama leggere, scrivere, camminare, ballare, coltivare amicizie e piante.