Ancora oggi, nel comune uso della lingua italiana, Caporetto sta a indicare una capitolazione, una grande sconfitta, una disfatta, così come fu battezzato quell’evento storico durante la Grande guerra iniziato il 24 Ottobre 1917. I libri di storia ci restituiscono questi numeri: 10.000 morti, 29.000 feriti, 290.000 prigionieri, mezzo milione di profughi civili. E ci restituiscono immagini di battaglie, di fiumi gonfi di sangue, di armate che avanzano e altre che indietreggiano. Si tace invece sugli atti di violenza contro le donne perpetrati da soldati tedeschi, bosniaci e polacchi per la maggior parte.


Finita la guerra, un’esigua minoranza di donne venete e friulane denunciarono gli stupri. Il Governo, nel novembre del 1918, istituì una Reale commissione d’inchiesta “Sulla violazione del diritto delle genti”. Grazie a questi documenti si è potuto ricostruire un quadro più dettagliato, anche se soltanto parziale, dello strazio sui corpi femminili. Innanzitutto la modalità ricorrente era quello dello stupro di gruppo. Il gruppo era formato da un minimo di due a un massimo di venti soldati. Lo stupro si accompagnava sempre con sevizie e rapine, i luoghi erano quasi sempre ubicati nelle zone rurali lontane dai centri abitati. Le donne che trovarono la forza di denunciare furono 735. In tante, invece, dissero che avevano “resistito” alla violenza: la vergogna di ammetterlo fu grande, anche perché questi interrogatori erano condotti solo da uomini. Data l’estrema delicatezza dell’argomento, ci si limitò a una raccolta delle varie testimonianze dividendole per categorie: stupri con ferimento o omicidio, stupri sotto la minaccia delle armi e stupri compiuti su donne anziane e bambine.

Alcuni casi si verificarono a Cividale e nelle zone di Vittorio Veneto. Antonio Gibelli, autore di Guerra e violenze sessuali: il caso veneto e friulano riporta gli stupri commessi sulle donne di Torreano, in provincia di Udine, il 7 novembre del 1917. Una donna di Tolmezzo testimoniò la violenza subita davanti ai suoi bambini. Questa ulteriore umiliazione si evince anche da testimonianze rese da donne dei territori di Udine e Belluno. La Regia inchiesta condotta è molto lacunosa sull’argomento limitandosi a una raccolta dati per pura indagine statistica. Le violenze sessuali vennero derubricate come “delitti contro l’onore femminile” e inseriti in una breve sezione. Ampio spazio si diede, invece, alla distruzione di edifici e al furto di bestiame. Spesso le vittime di violenza per la forza bruta dell’atto persero la vita: i casi accertati e documentati risultano 93. Daniele Cascin nel suo L’estremo oltraggio: la violenza alle donne in Friuli e in Veneto durante l’occupazione austro-germanica 1917/1918 ha raccolto testimonianze che riportano come «nella zona della sinistra Piave furono sequestrate 180 ragazze, rinchiuse nei locali di una scuola e stuprate in massa». Ancora oggi sul web se si fa una ricerca si trovano pagine de “Il Secolo Illustrato” del 1918 con disegni di donne prese di peso dai soldati e gettate su giacigli improvvisati dove venivano violentate davanti a gruppi di commilitoni. Tra le immagini la più terribile è quella raffigurante un soldato che in una mano tiene la testa mozzata di una donna. Sempre da quella Regia inchiesta apprendiamo di stupri su bambine «molte di queste sventurate fanciulle, rilasciate con il corpo straziato e con la coscienza perduta, restarono contagiate da insanabili malattie, che dovranno trascinare per tutta la vita…».

Le donne vittime di violenza e che avevano contratto malattie veneree furono catalogate come “mutilate morali”. Da queste violenze spesso nacquero figli e figlie e si dovettero aprire appositi orfanotrofi per ospitarle perché spesso gli uomini della famiglia, i soldati rientrati dal Fronte, non tollerarono la loro presenza. Uno di questi orfanotrofi si trovava a Portogruaro: una casa definita “per gli orfani dei vivi”. Nel 1918 l”’Ospizio figli della Guerra”, poi in seguito denominato Istituto S. Filippo Neri, arrivò a ospitare 327 fra bambine e bambini. Solo 59 di loro furono poi adottati o restituiti alle madri che faticosamente avevano convinto i familiari ad accettarli. Venivano appellati figli della guerra, intrusi, figli del nemico, cancri, tedeschetti. Tante furono le madri che, di nascosto al marito o al padre, che le aveva costrette a quella scelta, si recavano di nascosto all’orfanotrofio per allattare e accarezzare i figli. Furono cosi tante che a un certo punto la direzione dell’Orfanotrofio proibì queste visite. Giungevano a frotte, i visi nascosti da grandi fazzoletti dopo «aver fatto a piedi miglia e miglia» approfittando di temporanee assenze per lavoro del marito. «Supplicavano sfinite: me lo lascino baciare. Come sta? Sta bene? È cresciuto?». Un amore di madre che aveva vinto sull’odio, un amore più forte dell’orrore subito. Ma su questo amore si fece ulteriore violenza. Le peggiori guerre sono state quelle perpetrate sui corpi e sui sentimenti delle donne e nessun memoriale, ancora oggi, vuole ricordarlo.
In copertina: profughe nel campo di Katzenau. Archivio Museo Storico Italiano della Guerra MGR Katzenau.
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Articolo di Ester Rizzo

Giornalista, laureata in Giurisprudenza, è docente al CUSCA (Centro Universitario Socio Culturale Adulti) nel corso di Letteratura al femminile. Collabora con varie testate on line, tra cui Malgradotutto e Dol’s. Ha curato il volume Le Mille: i primati delle donne ed è autrice di Camicette bianche. Oltre l’otto marzo, Le Ricamatrici, Donne disobbedienti e Il labirinto delle perdute.
Contributo prezioso sulle tragedie delle guerre, sembra che nulla si impari….
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