La città di Bologna, sede della prima università europea fondata nel 1088, e seconda città più importante dello Stato Pontificio, è stata tra XVI e XVII secolo un fiorente e prolifico vivaio di artiste, donne talentuose che, pur meritando di entrare a pieno titolo nella storia dell’arte, sono state dimenticate e messe in ombra dalla forte presenza dei colleghi maschi. Finché non sono arrivate le storiche dell’arte americane degli anni Settanta del Novecento che hanno avviato lo studio e la riscoperta di tante artiste del passato, tra cui quelle appartenenti alla scuola bolognese, come Properzia de’ Rossi, Caterina de’ Vigri, Lavinia Fontana, Ginevra Cantofoli, Lucrezia Scarfaglia. Senz’altro una delle figure femminili più illustri attive a Bologna nel ‘600 è Elisabetta Sirani, celebrata dallo storico dell’arte Carlo Cesare Malvasia che nella sua opera Felsina Pittrice (1678) la definì «prodigio dell’arte, gloria del sesso donnesco, gemma d’Italia, sole d’Europa, l’Angelovergine che dipinge da homo, ma anzi più che da homo».
Figlia di Giovanni Andrea Sirani, affermato pittore bolognese, primo assistente di Guido Reni, Elisabetta nacque a Bologna l’8 gennaio del 1638, primogenita di quattro figli. La sua cultura spaziava dalla storia alla letteratura, alla filosofia e alle scienze, e sapeva anche suonare vari strumenti. Fin dalla più tenera età, insieme a due sorelle, poté avere anche una formazione artistica attraverso le opere che passavano nella bottega del padre, soprattutto quelle di Guido Reni. All’età di diciassette anni già realizzava ritratti. Ma in un ambiente di forte predominio maschile, Elisabetta poteva dipingere solo restando sempre sotto la “protezione” paterna. E, come per tutte le pittrici della sua epoca, non poté viaggiare, né acquisire la conoscenza anatomica, dato che la sperimentazione del nudo era riservata ai soli uomini.
A diciotto anni Elisabetta vinse un concorso per realizzare la sua prima commissione pubblica per la Chiesa di San Girolamo della Certosa, una tela di grandi dimensioni, raffigurante il Battesimo di Cristo, completata in un anno e per la quale ricevette un compenso di mille lire.

A ventiquattro anni era alla guida della bottega del padre, che, gravemente malato di gotta artritica, non poteva più proseguire la sua attività; portò avanti tutte le opere del padre e mantenne con i compensi ricevuti apprendisti e assistenti. Diventò a tutti gli effetti capofamiglia, e non si sposò mai. Creò anche una scuola di pittura, un’Accademia, frequentata solo da allieve, aprendo così la strada a nuove opportunità per l’emancipazione femminile.
La sua fama si diffuse In Italia e all’estero e la gente veniva a visitarla e a guardarla mentre dipingeva. Per allontanare qualsiasi sospetto sull’autenticità delle sue opere, Elisabetta, infatti, ne eseguì alcune pubblicamente, e firmava sempre i suoi dipinti, quando ancora firmare le proprie opere non era una consuetudine diffusa. Troviamo la sua firma sulle stoffe rappresentate nelle opere, sulle passamanerie, sui polsini, sulle sedie, nascosta su conchiglie, ripiani o strumenti musicali. In un periodo storico in cui le donne non esistevano economicamente e non avevano diritto di firma nemmeno sui documenti ufficiali, Elisabetta volle in questo modo sottolineare il suo talento femminile in una professione riservata fino allora solo agli uomini.
Tante nelle sue opere le eroine della storia antica e di quella biblica, figure femminili avanti coi tempi, indipendenti e forti, Porzia, Timoclea, Circe, Cleopatra, Galatea, Giuditta, donne coraggiose e ingegnose, nuovi modelli di femminilità.



Se confrontiamo le eroine effigiate da Elisabetta con quelle ritratte da Artemisia Gentileschi, due artiste che vissero in epoche vicine e trattarono gli stessi soggetti, capiamo come le due donne, provenendo da contesti completamente diversi, abbiano affrontato temi identici con stili diversi: Elisabetta seguiva il naturalismo dei Carracci e il classicismo barocco più elegante ed idealizzato di Guido Reni, mentre Artemisia si ispirava al caravaggismo romano, tutt’altro che idealizzato, aggiungendovi il suo gusto per i contenuti drammatici e i contrasti chiaroscurali.
La Giuditta della Sirani invece che da bellezza, emozione e sessualità, è caratterizzata da coraggio, forza d’animo, indipendenza e dignità.
Tanti anche i ritratti, di piccole e grandi dimensioni. Tra i suoi estimatori figuravano nobili e aristocratici, ecclesiastici, alcuni membri della famiglia Medici, la duchessa di Parma, la granduchessa di Toscana Vittoria della Rovere e la duchessa di Baviera.



Con l’attenuarsi delle influenze dei suoi maestri, Elisabetta sviluppò progressivamente uno stile proprio, più naturalistico e realistico.
Il suo capolavoro, Porzia si ferisce a una gamba, mostra la bellissima figlia di Catone e moglie di Bruto che si ferisce per dimostrare al marito di avere le virtù necessarie per condividerne le difficili scelte politiche. La donna non è ritratta come al solito nell’atto del suicidio, ma nel momento in cui si ferisce alla coscia, dimostrando coraggio e fermezza.

Porzia è vestita con un abito seicentesco, di bellissima seta. Le ancelle sullo sfondo indicano in modo chiaro che la protagonista rivendica il proprio ruolo di donna attiva, distaccata dal mondo domestico, in cui di solito erano confinate le donne di quell’epoca.
Elisabetta Sirani con questo lavoro sembra alludere un poco anche a sé stessa e alla sua tenacia nel vivere in un mondo chiuso e maschilista al quale doveva dare prova delle sue qualità artistiche.
Altre opere sono di soggetto religioso e devozionale, come le dolcissime Madonne, che dimostrano la sua grande capacità di adattarsi a generi e iconografie diverse.


L’artista bolognese esprime un proprio stile e un talento geniale per la grazia dei tratti del pennello, la bellezza dei soggetti e la fine armonia dei chiaroscuri.
Elisabetta dedicò tutta la sua breve vita al lavoro. E forse fu lo stress da superlavoro a causarne la morte prematura: morì, infatti, a soli ventisette anni, a Bologna il 29 agosto 1665. Il padre accusò una domestica, Lucia Tolomelli, di averla avvelenata. Lo stesso padre, assieme ad una delle allieve, Ginevra Cantofoli, fu accusato di averla uccisa, il primo forse mosso da invidia nei confronti della figlia e la seconda perché gelosa della sua bellezza e sua rivale in amore. Nessuno dei tre indagati fu però accusato formalmente e la pittrice fu dichiarata morta a causa di un’ulcera perforante, cosa più che probabile, considerando le sostanze pericolose che aveva manipolato nella sua intensa e frenetica attività. Fu sepolta con grandi onori nella chiesa di San Domenico al fianco di Guido Reni.
Giovanni Luigi Picinardi scrisse dei versi per le esequie della pittrice, Il Pennello lagrimato, etichettandola «dell’arte Apellea mostro», e mettendo in luce una nuova figura della donna, conscia delle proprie capacità e del proprio valore.
Nonostante la morte prematura, Elisabetta ha lasciato circa duecento opere, realizzate nell’arco di dieci anni, dal 1655 al 1665, che lei stessa ha registrato in Nota delle pitture fatte da me. La lista include 195 dipinti, oltre a disegni, acquerelli e incisioni e una rete capillare di 98 committenti. Era nota per la velocità del suo pennello: cominciava con un bozzetto velocissimo, cui aggiungeva dell’acquerello. Questa tecnica, conosciuta come spezzatura, le permetteva di delineare in poco tempo le caratteristiche principali di un dipinto, per cui poteva riuscire a finirlo anche in un giorno.
Grazie al cenacolo di donne artiste che dopo la morte della maestra ne continuarono lo stile, dedicandosi prevalentemente alla pittura devozionale, fu possibile, almeno a Bologna, l’inserimento della donna negli ambienti accademici e aristocratici della città che, non a caso, sarà chiamata da Antonio Francesco Ghiselli “paradiso delle donne”. Tutte coloro che vi entravano, poi continuavano la loro carriera artistica a livello lavorativo, o come pittrici o nel campo dell’incisione. Malvasia riporta anche un elenco di allieve di Elisabetta, fra cui le due sorelle della pittrice, Barbara e Anna Maria, assieme a Ginevra Cantofoli, a cui si aggiungono Lucrezia Bianchi, Maria Oriana Galli Bibiena, Veronica Fontana, Lucrezia Scarfaglia.
L’Accademia di pittura di Elisabetta Sirani fu la prima Accademia femminile fondata fuori da un convento e diretta da una “Maestra”. Questo ha segnato una tappa importante nell’istruzione artistica delle donne, e in un mestiere dedicato esclusivamente agli uomini, fino ad allora considerati gli unici veri detentori del genio artistico.
In copertina: allegoria della Pittura (part.) di Elisabetta Sirani.
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Articolo di Livia Capasso

Laureata in Lettere moderne a indirizzo storico-artistico, ha insegnato Storia dell’arte nei licei fino al pensionamento. Accostatasi a tematiche femministe, è tra le fondatrici dell’associazione Toponomastica femminile.