«L’arte culinaria è una delle forme nate con l’essere umano che nella sua ambigua natura di animale logico e simbolico, oltre che essere naturale, è un produttore di cose e di immagini, così come i cibi preparati fanno parte della storia umana nella sua vastità e complessità». (Homo Edens, Carlo Tullio Altan).

e offerte rituali ai defunti
Le grandi civiltà provenienti dal Mediterraneo orientale e meridionale hanno rappresentato un insieme di fermenti culturali. Nel mare Egeo, la diversità delle aree geografiche costituiva l’elemento dominante; a parte le due isole maggiori Cipro e Creta, le altre numerose isole che costellano quel mare hanno sempre costituito una serie di ponti naturali per l’accesso alla penisola greca. I ritrovamenti botanici e zoologici delle comunità egee dell’Età del Bronzo documentano sia l’allevamento di animali, per quanto siano perdurate la caccia e la pesca, che l’agricoltura con la coltivazione di alberi di ulivo, fico, vite, legumi e cereali; tra questi maggiormente attestati sono il farro e l’orzo, mentre l’avena e il miglio erano meno consumati ma sostitutivi nelle annate di raccolto insufficiente.
La dieta era principalmente vegetariana, integrata dal latte e dai suoi derivati, assieme ai prodotti della pesca e a un limitato consumo della carne di montone, agnello, capra, maiali; l’apporto proteico era certamente garantito dal consumo delle leguminose. L’assunzione di carboidrati era assicurata dal frumento e dall’orzo, sgusciati e arrostiti o in un porridge preparato con il farro o con la farina d’orzo; il pane più comune era a base di farro non lievitato, così come attestato dal ritrovamento di un pane carbonizzato nella città di Tirinto. L’olio di oliva nella maggior parte dell’Egeo era uno dei grassi vegetali di base della dieta, delle offerte cultuali e della trasformazione per la produzione di unguenti profumati. Oltre agli alimenti da consumare cotti o crudi, negli orti coltivavano erbe aromatiche e spezie, come sedano, menta, salvia, zafferano e cumino utilizzati per insaporire i cibi.

Le testimonianze più ricche riguardanti la storia dell’alimentazione, provengono dal mondo greco. Platone, Senofonte, Plutarco, Luciano di Samosata hanno dedicato interi trattati alle diete e alla tavola, a partire dal V sec. a.C. al II sec. d.C.; molti scritti sono raccolti nel Corpus Hippocraticum che risalgono alla prima metà del V secolo. Essere filosofi nell’antica Grecia comportava attenersi a delle pratiche che riguardavano diversi aspetti della vita fra cui la dieta, infatti Platone sostiene che il buon medico deve conoscere le usanze alimentari e i loro effetti sull’umanità, aggiungendo che la cura delle malattie causate dall’assunzione dei grassi animali doveva essere regolata da un regime vegetariano, osservando le reazioni del singolo per poi estenderlo a tutti e tutte. Infatti, ancora oggi, le antiche popolazioni greche sono definite «precorritrici della dieta mediterranea», perché, soprattutto in età arcaica, avevano basato la loro alimentazione su un’economia decisamente agricola e in particolare prediligevano i prodotti caratteristici della terra (farro, miglio, grano, orzo olive e vite) e i loro derivati, alimenti essenziali della loro dieta. Aristotele, invece, sostiene che gli esseri umani, essendo onnivori, possono assumere una varietà di cibi, rispetto agli animali solamente carnivori o erbivori, per cui gli stili di vita diventano necessariamente variabili. Tra gli altri scritti che ci sono giunti, ricordiamo quello di Archestrato di Gela (IV sec. a.C.), filosofo, viaggiatore e buongustaio, che pare sia stato il primo a scrivere in versi epici le sue ricette, nel suo poema in esametro Ηδυπάεια (I piaceri del buongustaio). Dopo la Rivoluzione neolitica, con l’introduzione della cerealicoltura nel mondo ellenico si sviluppò una intensa e significativa mitologia che ne attribuì la scoperta a una o più divinità, si pensi su tutti al mito di Demetra, dea legata alla raccolta dei frutti terrestri, e Persefone e al susseguirsi delle stagioni. Per il popolo greco le abitudini dietetiche, la produzione degli alimenti, la spartizione del cibo disponibile, erano necessità primarie in grado di determinare l’esistenza dell’umanità, che nella sua centralità era legata prima ancora che alla qualità, alla quantità rispetto al fabbisogno.

L’attrezzatura culinaria prevedeva l’esistenza di un focolare (la cui divinità protettrice era Hestia), di un tripode dove ammucchiare la brace e di un forno (klibanos); inoltre il fuoco era conservato nella brace ricoperta di cenere e chi non ne disponeva poteva chiederlo ai vicini. Si cucinavano focacce e spianate a base di cereali e olio, realizzando ricette economiche e pratiche e aggiungendo spezie per i piatti salati, miele e frutta per le preparazioni dolci; erano grandi amanti del pane e delle sue preparazioni sperimentando diverse tipologie di panificazione dalle laganas al pane di semola, di farina grossolana e di miglio; per la lievitazione si usavano il vítpov o lievito di vino e veniva cotto su carboni accesi sul pavimento in cui veniva posto un coperchio a cupola. Tra i legumi secchi erano prediletti i ceci, le lenticchie, le cicerchie e i piselli, che erano preparati in zuppe calde o in snack, mentre i ceci abbrustoliti erano sgranocchiati come spuntino tra un pasto e l’altro; i legumi erano gli alimenti più accessibili a tutti e tutte sia nelle città che nelle zone rurali, garantendo il sostentamento a un numero maggiore di persone rispetto a quello dell’allevamento di animali. Il consumo della carne era circoscritto alle festività, cerimonie, eventi particolari per la famiglia, in tutte le pratiche rituali e in particolare allo spazio sacrificale: le parti dell’animale sacrificato erano poi ripartite nel culto, una regola praticata per la partecipazione simbolica degli dei alla mensa degli umani.

Museo dell’Acropoli, Atene
Alcuni vegetali non erano consumati per diversi valori simbolici, divieti dietetici e interdizioni rituali, così la lattuga che era ritenuta la causa di riduzione della virilità o ancora la melagrana, che era considerata la frutta dei morti. Ai morti erano legate anche le fave, malgrado ricche di proteine vegetali, che non erano consumate perché vi trasmigravano le anime dei morti e perché, secondo una loro credenza, arrecavano visioni e sogni inquieti; a riferirne sono, per esempio, Pausania che scrive nella sua Guida della Grecia (VIII, 15), che le fave erano l’unico legume che Demetra aveva escluso tra quelli donati ai Fenati ed erano tra quelli vietati ai sacerdoti di Eleusi per una motivazione che lo stesso autore riferisce essere segreta. Pitagora proibiva severamente ai suoi discepoli di cibarsi di fave, riteneva che fossero il canale di comunicazione con l’Ade, il mondo dei morti, poiché la macchia nera dei fiori candidi rappresentava la lettera theta con la quale iniziava la parola Thanatos, la morte; anche lo stelo della pianta, l’unico privo di nodi, era strumento di comunicazione tra il mondo degli uomini e quello dei morti. Pare che lo stesso Pitagora in fuga dai seguaci di Cilone di Crotone, preferì il rischio di farsi raggiungere e uccidere (cosa che non avvenne) piuttosto che rifugiarsi in un campo di fave; invece, secondo Aristofane era il cibo preferito da Eracle. In un’iscrizione del VI a.C. rinvenuta sull’isola di Rodi, si consigliava ai fedeli di astenersi dai cibi afrodisiaci e dalle fave per mantenersi in uno stato di purezza. In Grecia una peculiarità rispetto agli altri prodotti alimentari l’aveva il vino che come il suo dio Dionisio, aveva molti nomi che servivano a riconoscerlo e che corrispondevano per lo più al luogo fisico di produzione; pare che la prima produzione vinicola si debba circoscrivere all’isola di Chio, dove si attesta il primo vino rosso (nero in greco). Già Omero chiamava per nome il vino di Ismaro e quello di Pramno, il più antico dei vini in epoca storica nell’isola Icaria, l’attuale Nicaria.

La toponomastica «enoica» descritta da Ateneo nel suo primo libro i Filosofi a banchetto, disegna una geografia metaforica che si distingue attraverso un nome, il colore e l’aroma che vengono riconosciuti e collegati con il territorio da cui il vino prende il nome, funzione riconosciuta nelle fasi arcaiche della storia greca, a tutt’oggi applicata. Tra i diversi fattori che il viticoltore deve considerare sono: la scelta e l’integrazione tra vitigno e luogo, evidenziate dalle caratteristiche fisiche del terreno che influenzano la fertilità, il clima, l’esposizione del sole, capaci di equilibrare lo stato vegetativo e l’arricchimento delle maturazioni fenoliche che ne determina la qualità, fondamentali per l’equilibrio e per raggiungere gli obiettivi enologici, affinché i mosti abbiano una specifica composizione rispettando le disposizioni legislative a seconda della tradizione territoriale da cui il vino viene riconosciuto. I nomi dei vini in cui non sono riconducibili al territorio sono più rari, tra questi i vini Antedonia e Iperia dai nomi dei loro produttori, rispettivamente Anto e Ipero, vitigni coltivati a Trezene, in Argolide. Gli Indoeuropei conobbero questa pregiata bevanda divenendo un simbolo di agiatezza, ricchezza e importanza, grazie ai numerosi flussi migratori verso l’Europa, in epoche davvero antiche, che consentirono il contatto tra le culture “viticole” del Mediterraneo. Anche il cibo in tutte le sue forme, dalla scelta alla preparazione, è sempre stato condizionato dai valori culturali e dall’importanza dell’alimentazione che con i suoi nutrienti fornisce energia all’organismo.
***
Articolo di Giovanna Martorana

Vive a Palermo e lavora nell’ambito dell’arte contemporanea, collaborando con alcuni spazi espositivi della sua città e promuovendo progetti culturali. Le sue passioni sono la lettura, l’archeologia e il podismo.
Si apprendono sempre nuove informazioni dalle ricerche della Martorana, che per i Greci le fave fossero un cibo vicino ai morti, proprio non lo sapevo. Molto interessante
"Mi piace""Mi piace"