Lgbtq+ e università. Combattere le discriminazioni e trovare la propria voce

Il 5 maggio all’Università di Torino si è tenuta la conferenza Lgbtq+ nella scuola e nell’università: esperienze di insegnamento a confronto che, come emerge dal titolo, si prefiggeva l’obiettivo di condividere le esperienze di insegnanti appartenenti alla comunità queer all’interno delle istituzioni. L’idea nasce pochi mesi fa, quando organizzatori e organizzatrici si sono poste la domanda sul perché fosse difficile insegnare la storia del mondo lgbtq+ in Italia, dall’assenza di corsi dedicati alle vere e proprie proteste verso anche un minimo accenno al tema nelle scuole. Riflettere su queste esperienze è fondamentale per poter contrastare le discriminazioni e attuare delle strategie efficaci per introdurre le tematiche queer non solo a studenti ma anche alle famiglie – che spesso sono le prime a partire prevenute e a diffondere panico ingiustificato. 

L’Università di Torino è una delle poche a permettere la carriera alias, un profilo burocratico particolare che comporta la sostituzione sui documenti del nome di una persona transgender con quello che si è scelta invece di quello assegnato alla nascita, una procedura attivabile anche in assenza di un percorso medico. È inoltre una delle poche che attivamente finanzia e promuove iniziative rivolte ai queer study, branca che si occupa specificatamente della storia e delle tematiche lgbtq+. Tuttavia, anche in un contesto così aperto, è ancora molto sentita la censura specie quando sono coinvolte le età minori: le bambine e i bambini sono spesso usate/i per ostacolare le buone pratiche e giustificare l’odio e la violenza verso la comunità queer, alimentando campagne di disinformazione che non raramente finiscono per avere ripercussioni nella vita reale; diventa quindi fondamentale conservare e diffondere la storia, per mettere in guardia da narrative pericolose. 

Il primo panel si intitolava Narrazioni Lgbtq+ nella scuola italiana e ruolo dell’attivismo nella (auto)formazione del corpo docente. La scuola oggi tace su numerosi temi sociali e sui cambiamenti che stanno avvenendo. La colpa principale è del lento e inesorabile smantellamento delle risorse e del mutamento dell’istituzione scolastica e universitaria da luogo del sapere e di formazione ad azienda che ha il solo compito di creare lavoratrici e lavoratori ultra-specializzati. Il persistere a non usare la parola “omofobia” nei testi di legge o quando si descrivono atti discriminatori è indicativo della volontà soprattutto politica di non vedere la realtà – omettere consente di far finta che quanto taciuto non esista – e impedire, quindi, la risoluzione del problema. Eppure, nelle scuole la richiesta di informazioni sul mondo queer è solo in aumento: parte da docenti, da genitori, da studenti, perché hanno assistito a eventi omotransfobici o perché alla ricerca di un luogo di appartenenza. “Visibilità” e “comunità” sono le parole guida che possono permettere la creazione di un ambiente sicuro per le/gli studenti che permetta di esprimersi liberamente – la scuola non lo è, come dimostrano gli sconfortanti dati sul bullismo. I/le docenti lgbtq+ sono vittime di uno stigma ancora maggiore, proveniente dal resto del personale scolastico e dai genitori, il che spinge molti/e di loro a cercare di tenere la vita privata e la vita lavorativa il più separate possibili. Per questo nasce nel 2021 la Rete docenti Lgbtq+, per creare spazi di discussione e mettere a frutto strategie che possano aiutare sia il personale scolastico che il corpo studentesco. La formazione è fondamentale per smantellare stereotipi e aiutare a riconoscere le discriminazioni, il contrasto all’omotransfobia diventa uno degli obiettivi dichiarati assieme a protocolli di supporto che siano inclusivi ed accoglienti. Emerge poi la questione della narrazione omessa: autori e autrici, artisti e artiste la cui sessualità non conforme viene taciuta anche a scapito di stravolgere la loro poetica: dal manuale passa molta della didattica fatta in classe ed è importante sceglierne uno inclusivo e accurato. Il clima di competizione spietata che affligge la scuola può essere sconfitto solo riscoprendo il senso di comunità, facendo rete fra colleghi e colleghe, includendo le famiglie e facendo fronte ad attacchi esterni. 

Un esempio di questi valori viene dalla Sardegna e dal Gruppo Scuola del Movimento omosessuale sardo: consci che la scuola sia uno dei luoghi, se non il luogo dove si può attuare un vero e duraturo cambiamento, all’inizio del millennio gli/le insegnanti presero l’iniziativa e introdussero nei loro programmi persone famose appartenenti alla comunità queer, come Frida Khalo e Marsha P. Johnson, o discussero liberamente della sessualità di alcune delle figure studiate, come Oscar Wilde. Nel 2006 aderì anche il Mos (Movimento omosessuale sardo) che diede il suo patrocinio e attivo sostegno tramite la succursale, il Gruppo Scuola Mos, partecipando alla formazione di docenti, organizzando incontri mirati con le classi sia delle superiori che delle  medie e con le famiglie, portando le testimonianze di persone che hanno vissuto la discriminazione omotransfobica sulla loro pelle e che sono comunque riuscite ad andare avanti e a brillare. Ogni volta è sempre stato rilevato il grande entusiasmo di ragazzi e ragazze, la loro curiosità e sete di sapere. La recente pandemia non è stata un ostacolo al proseguimento di queste iniziative: è stato infatti girato un documentario, poi trasmesso nelle classi virtuali, e finita l’emergenza gli incontri sono ripresi con nuova regolarità e partecipazione. Il valore di questi progetti è ancora più importante quando si prende nota di tutti i tentativi di soffocarli sul nascere da parte di movimenti come Pro Vita, rinomata per diffondere velate minacce quando vengono annunciati, coinvolgendo anche i genitori, soprattutto quelli con figli e figlie nelle scuole primarie. Azioni intimidatorie che spesso promuovono bullismo a sfondo omotransfobico verso studenti e insegnanti che hanno fatto coming out. È una questione politica e di sistema ancora prima di essere sociale, e alla luce delle ideologie espresse dall’attuale governo, è molto importante fare rete e sostenersi a vicenda.

Il secondo panel era intitolato Eteronormatività e corpi nella scuola italiana. La scuola italiana è ancora fortemente influenzata dalla riforma Gentile del 1923, che nessun governo ha mai veramente voluto cambiare nonostante molte delle problematiche esistenti a quei tempi oggi non esistano più, come la necessità di non mandare minorenni a scuola in estate di modo che potessero aiutare nei campi. Le conseguenze di questo immobilismo – esasperato dalla pandemia – sono state disastrose: i corpi che abitano le nostre aule per lunghissime ore non hanno alcuna possibilità di movimento o di espressione, pena una punizione; gli insegnamenti che vengono impartiti sono puramente teorici, nulla di pratico e nulla che insegni a gestire la sfera emozionale e affettiva, figurarsi quella sulla espressione di genere; la relazione con il proprio corpo viene troncata proprio nel momento in cui questo cambia, lasciando ragazzi e ragazze spaesate e senza una guida sicura che spieghi cosa sta accadendo loro. L’infanzia non viene ancora vista come una età a sé stante con bisogni specifici ma o in funzione dell’adolescenza o come negativo dell’età adulta, un’immagine distorta che non permette di guardare alla grande curiosità e sete di sapere di bambini e bambine come opportunità ma solo come fastidio, specie quando le domande che fanno vertono sui temi sessuali. Emerge, chiara e urgente, la necessità di liberare l’infanzia dall’eteronormatività che regola i corpi di piccoli e piccole in ruoli soffocanti e frustranti, e di contrastare l’ingerenza di frange fondamentaliste che si approfittano del naturale istinto di protezione dei genitori. Solo uno spazio aperto e una comunità educante possono crescere cittadine e cittadini consapevoli che non hanno paura di essere sé stesse/i. 

La pedagogia di genere in Italia ha promosso riflessioni sui ruoli di genere e le aspettative e gli stereotipi a essi associati da più di 50 anni. Particolare attenzione è stata data al mondo femminile, mentre le analisi sul mondo maschile sono arrivate solo più tardi. È possibile argomentare che nonostante le sue buone intenzioni la pedagogia italiana abbia involontariamente riproposto e promosso ruoli di genere stereotipati; ancora oggi si fa parecchia fatica ad aprirsi ai temi riguardanti il mondo trans e non-binary anche quando in presenza di pre/adolescenti che ne fanno parte. L’Italia, come spesso accade, è rimasta indietro rispetto al resto del mondo dove la ricerca su questi temi è andata molto avanti ormai da anni. Le esperienze non-eterosessuali e non-cisgender mostrano il ruolo ambivalente della scuola: sistema di oppressione e riaffermazione se non esasperazione degli stereotipi di genere (marcatura della scuola/università che non include soggettività trans e non-binary, scarso materiale didattico, assenza di spazi di supporto, mancate azioni contro atti di bullismo dovute a burocrazia e leggi inefficienti) da un lato, e luogo di ribellione e autodeterminazione (compagni/e che offrono supporto e aiuto, condivisione di esperienze di resistenza in ambienti non-inclusivi) dall’altro. È più che mai urgente che si recuperi il tempo perso per poter creare delle figure guida che possano aiutare gli/le studenti ad esprimersi nel modo più libero e sicuro possibile, ampliando lo statuto epistemologico riconoscendo l’implicito cisgenderista della pedagogia italiana e illuminando nuove vie di ricerca, mettendo al centro la persona e non solo la sua esperienza.

Il terzo panel era intitolato Insegnamento Lgbtq+: università spagnola e italiana ed esperienze di docenza a confronto, dove veniva raccontata l’esperienza del Master in studi Lgbtq+ presso l’Università Complutense di Madrid, una iniziativa pionieristica in quanto primo percorso di laurea dedicato al mondo queer nei Paesi di lingua spagnola e uno dei primi al di fuori della sfera anglosassone. L’Università Complutense ha una lunga storia di supporto degli studi lgbtq+, visti come un ampliamento di quelli di genere e il master è considerabile un cambiamento di paradigma, un atto pubblico sociale, accademico e resistenza, che ha riscosso un successo anche internazionale. Il Master (che va contestualizzato nella grande ondata progressista successiva al governo fascista di Francisco Franco, ondata che sta ancora dando i suoi frutti nonostante i rigurgiti di estrema destra) ha una natura interdisciplinare e intersezionale, sintesi tra le pratiche di attivismo e quelle accademiche.

La giornata si è conclusa con l’intervento di Lorenzo Bernini, docente di Filosofia, politica e sessualità all’Università di Verona e protagonista di forti proteste da parte di gruppi neofascisti e cattolici a causa dei suoi studi sulle sessualità e le espressioni di genere. Attualmente Bernini è direttore del Centro di ricerca PoliTeSse (Politiche e Teorie della Sessualità) e tra i più attivi promotori della Rete degli studi di Genere, Intersex, Femministi, Trans-femministi e sulla sessualità (Gifts), nati dalla sua instancabile attività di ricerca nonostante gli ostacoli dei gruppi integralisti. Gli insegnamenti riguardanti la sessualità non sono ufficiali, gli impianti teorici sono spesso “camuffati” con nomi alternativi – come il corso di “Filosofia, politica e sessualità” tenuto da Bernini – o integrati in altri corsi. Se questo permette alla ricerca di andare avanti, dall’altro la non ufficialità impedisce una relazione diretta con le istituzioni accademiche e politiche, e può portare a una situazione di precarietà. A ciò si aggiungono le proteste di gruppi ultraconservatori che non vogliono che questi temi entrino nelle università o nelle scuole, arrivando anche a usare minacce per raggiungere i propri scopi – come è accaduto al professor Bernini, le cui conferenze sono spesso state o cancellate o disturbate da queste frange fondamentaliste. 

Il tema del mondo queer in relazione alla scuola e all’università è sempre fonte di grandi polemiche, spesso prive di fondamento e alimentate da ignoranza. Iniziative come questa conferenza sono importanti se non addirittura necessarie per contrastare l’isteria che pare si stia impadronendo della nostra società e mettere finalmente al centro la persona e il suo benessere. 

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Articolo di Maria Chiara Pulcini

Ha vissuto la maggior parte dei suoi primi anni fuori dall’Italia, entrando in contatto con culture diverse. Consegue la laurea triennale in Scienze storiche del territorio e della cooperazione internazionale e la laurea magistrale in Storia e società, presso l’Università degli Studi Roma Tre. Si è specializzata in Relazioni internazionali e studi di genere. Attualmente frequenta il Master in Comunicazione storica.

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