L’indifferenza che circondò le sorti di milioni di persone vittime della follia nazifascista, magistralmente definita dalla senatrice Segre «più colpevole della violenza stessa», a quanto pare, purtroppo, esiste ancora. È proprio dei giorni di fine gennaio 2022 la notizia che un paio di ragazzine, tra i 14 e i 15 anni, hanno malmenato e insultato un coetaneo in un parco pubblico, con frasi irripetibili ma di chiara connotazione antiebraica senza che nessuno sia intervenuto, tra l’indifferenza generale. Proprio a ridosso della Giornata della Memoria!
Parrebbe quasi che, a differenza di figli, figlie e nipoti dei sopravvissuti all’olocausto impegnati a diffondere le tragedie vissute dai loro cari affinché tutto quanto non si ripeta, alle generazioni ultime quelle voci non siano arrivate. La voce, ad esempio, di Massimo Foa, figlio di Guido Foa ed Elena Recanati, giovani sposi al momento del loro arresto avvenuto il 9 agosto 1944. L’esperienza vissuta dalla madre venne divulgata da Massimo utilizzando come fonte una lettera da lei scritta alla sorella nel novembre 1945 e considerata il suo testamento spirituale.
Elena, nata a Torino il 12 marzo 1922, era di famiglia ebrea, la mamma Luigia Simon era ebrea tedesca di Berlino poi trasferita nel capoluogo piemontese con il marito Luigi Recanati. L’esperienza del primo conflitto mondiale aveva segnato irrimediabilmente Luigia che smise persino di parlare in tedesco né tanto meno volle insegnarlo ai suoi figli. Per Elena però quel poco che aveva appreso ascoltando talvolta i genitori fu di fondamentale importanza perché, durante la prigionia, le permise di comprendere alcuni degli ordini dei suoi aguzzini.
Elena e Guido erano fidanzati dai tempi del liceo, il Vittorio Alfieri di Torino, e avevano deciso di sposarsi proprio nel momento in cui i Recanati stavano per scappare in Argentina, nell’agosto 1942. I due giovani, in seguito ai bombardamenti sulla città, si trasferirono a Cuorgnè, dove l’8 novembre 1943 nacque il figlio Massimo. Ma gli eventi stavano rapidamente precipitando: una decina di giorni dopo il messo comunale, mettendo a repentaglio la sua stessa vita, ordinò loro di andarsene immediatamente per sfuggire all’arresto che avrebbe dovuto compiersi l’indomani. Prascorsano, Forno Canavese e Canischio, piccoli comuni in provincia di Torino, furono le loro ultime mete prima dell’arresto del 9 agosto 1944, avvenuto a seguito di una delazione.

Nella sua lettera Elena descrisse quei pochi mesi vissuti da clandestina come una parentesi di serenità, di quasi normalità, tra la cura del bambino e della casa, le passeggiate in campagna, fino all’arrivo della decima M.A.S. comandata da Valerio Borghese che li caricò su un camion diretto alle sede delle SS (oggi in piazza C.L.N.) a Torino. Quel viaggio nella cabina di guida, stretta tra il conducente e un soldato armato, con il figlioletto in braccio e paralizzata dal terrore, rimase scolpito per sempre nella sua memoria ma ciò che la ferì di più fu l’indifferenza della gente che passeggiava in via Roma nel momento in cui scesero dal camion, gente che si fermava a guardare senza battere ciglio e riprendeva tranquillamente a camminare, come se fosse tutto normale.
Nella sua lettera Elena ricordò con orrore il momento in cui, trasferita alle carceri Nuove, si ritrovò in una cella infestata dalle cimici e a causa di esse fu costretta notte e giorno a vegliare per impedire loro di attaccare il figlio. Fortunatamente la direttrice del carcere, suor Giuseppina, di tanto in tanto portava il piccolo a visitare il padre detenuto nella sezione maschile e in questo modo i due erano riusciti a mantenersi in contatto scambiandosi qualche bigliettino. Dopo circa otto giorni, grazie al coraggio di suor Giuseppina, Massimo fu fatto uscire, nascosto in mezzo alle lenzuola sporche destinate alla lavanderia e affidato a Clotilde Roda Boggio, una signora conosciuta dai Foa a Cuorgnè, vedova con tre figli poco più che adolescenti (di cui due militanti partigiani), che viveva facendo la balia asciutta. Era pericolosissimo ovviamente nascondere un ebreo ma a “mamma Tilde” il coraggio non mancava e nemmeno la modestia poiché lei, a guerra finita, si dichiarò sempre convinta di non aver fatto proprio nulla di eccezionale: «Avevo forse alternative? Potevo lasciar morire un bambino?». Nel 1986 fu insignita dal Console di Israele dell’attestato e della medaglia di “Giusta fra le Nazioni” e nel viale dei Giusti a Gerusalemme fu piantato un albero in sua memoria.
Mentre il piccolo Massimo era al sicuro, il nonno paterno Donato, papà e mamma arrivarono ad Auschwitz il 28 ottobre 1944, quando l’evacuazione del campo era già iniziata. Il nonno fu immediatamente mandato nelle camere a gas, Elena e il marito Guido furono separati e non si rividero mai più. Lei si trovò proiettata in un incubo: appelli interminabili sempre in piedi, di giorno e di notte, botte, qualche cucchiaiata di zuppa ogni tanto e, soprattutto, l’odore mai dimenticato che usciva dai forni crematori. Dopo quattro giorni fu trasferita a Bergen-Belsen e, agli orrori già sperimentati, si aggiunse il lavoro forzato «pesante e inutile sotto la neve in un abbigliamento oltre che inverosimilmente lacero e sporco, anche inadeguato alla stagione». Elena proseguiva la descrizione della sua vita al campo specificando che le prigioniere erano vestite con un abito di tela leggera senza maniche, un cappottino senza fodera e lacero; calzavano zoccoli di legno, a piedi nudi; dormivano su paglia sporca, erano preda di febbri, piaghe e torturate costantemente dalla fame.
Fu successivamente trasferita a Breuschweig dove trascorse il resto dell’inverno e, quando lei e le sue compagne superstiti furono portate via dal campo perché gli Alleati stavano per raggiungerlo, Elena era convinta che fossero tutte destinate al crematorio; ricordò di essere quasi contenta perché la morte avrebbe posto fine alle sofferenze e alle umiliazioni patite. In realtà fu accompagnata in una baracca ospedale e liberata dall’esercito russo il 1° maggio del 1945. Il 16 ottobre riabbracciò finalmente il figlio Massimo e ricominciò pian piano a vivere, sperando a lungo nel ritorno del marito Guido di cui non aveva avuto più alcuna notizia. Molti anni dopo avviò le pratiche per dichiararne la morte presunta convinta oramai che per il bene del figlio fosse necessario guardare avanti e ricominciare da capo. Si laureò in legge e nel 1948 riuscì a rientrare in possesso dell’azienda di famiglia, una acciaieria fondata dal suocero e dal marito. Dopo anni di lavoro per rimetterla in grado di operare a causa dei disastri provocati dalla guerra, ne divenne amministratrice e, in seguito, presidente. Nel 1977 fu nominata presidente dell’Associazione Imprenditrici e Donne Dirigenti d’Azienda, carica ricoperta fino al 1980. È venuta a mancare nella sua città nel 1983.
La testimonianza di Elena fu raccolta in una intervista della ricercatrice Laura Matteucci nel 1982, nell’ambito di un progetto dell’Aned (Associazione Nazionale Ex Deportati nei Campi Nazisti) di Torino finalizzato a conservare le memorie dei testimoni dell’olocausto e fu più volte citata nei testi di autori come Anna Bravo e Gianpaolo Pansa. Gran parte del lavoro di divulgazione fu portata avanti dal figlio Massimo, che, tra le altre cose, curò la pubblicazione della lettera della madre sulla rivista Levia Gravia (anno V, 2003). L’impegno della famiglia nel mantenere viva la memoria continua ancora oggi: dopo la scomparsa di Massimo nel 2014, il figlio Guido ha ideato il progetto Luce 26692, il numero di matricola assegnato alla nonna ad Auschwitz. Il progetto vuol essere una testimonianza in chiave teatrale dell’esperienza di Elena e di altre persone che hanno vissuto storie analoghe di emarginazione e sofferenza, andata in scena il 29 e 30 gennaio 2022 alla Casa del Teatro Ragazzi e Giovani di Torino.
Ancora oggi, purtroppo, nella famiglia di Elena c’è chi sta sperimentando sulla propria pelle gli effetti devastanti del razzismo e della discriminazione, nefandezze molto presenti nella nostra quotidianità, come ci ricordano le cronache giornalistiche quotidiane. Elena, dopo aver perso definitivamente le speranze di ritrovare vivo il marito, si risposò ed ebbe due figli. Una delle nipoti, la diciannovenne Gloria Napolitano, di madre camerunense, è attivista per i diritti sociali e rappresentante della Consulta Provinciale degli studenti di Torino e denuncia amareggiata quanti tuttora le gridano: «Tornatene al Paese tuo!» a causa del colore della pelle, nonostante sia nata e cresciuta a Torino nel quartiere di San Salvario, lo stesso in cui viveva la nonna.

Anche Gloria ha contribuito alla trasmissione della memoria della vita di Elena con un documentario realizzato con il regista Angelo Cretella.
A Torino, in via Ormea 40 dove Elena aveva vissuto con la sua famiglia d’origine, è stata posta una pietra d’inciampo il 15 marzo 2016.
Per non dimenticare.
***
Articolo di Marina Antonelli

Laureata in Lettere, appassionata di ricerca storica, satira politica e tematiche di genere ma anche letteratura e questioni linguistiche e sociali, da anni si dedica al volontariato a favore di persone in difficoltà ed è profondamente convinta dell’utilità dell’associarsi per sostenere i propri ideali e cercare, per quanto possibile, di trasformarli in realtà. È autrice del volume Satira politica e Risorgimento. I giornali italiani 1848-1849.