Gli alberi della pace

Tra il 7 aprile e la metà di luglio del 1994 il Ruanda fu devastato da un terribile genocidio, conosciuto come uno dei più sanguinosi episodi della storia dell’umanità. In un centinaio di giorni morirono tra le 800mila e il milione di persone, quasi tutte appartenenti all’etnia Tutsi. Durante il periodo di colonizzazione belga, il potere era nelle mani della popolazione Tutsi, che costituiva la classe benestante del Paese, mentre l’etnia Hutu svolgeva mansioni più umili e meno retribuite. Nel 1959, grazie al sostegno del governo belga, l’etnia Hutu prese il potere e iniziarono le persecuzioni contro l’etnia Tutsi, costretta alla fuga, trovando riparo nei Paesi limitrofi.

Negli anni Novanta, le posizioni di comando erano ancora nelle mani della gente Hutu che considerava i pochi Tutsi rimasti una razza estranea di cui liberarsi per poter recuperare libertà e dignità, arrivando a soprannominarli “gli scarafaggi”. L’abbattimento dell’aereo, da parte di attentatori ignoti, su cui viaggiava il presidente ruandese fu il pretesto per fomentare una vendetta trasversale contro i Tutsi e il 7 aprile 1994 iniziarono i massacri. Non fu solo quella popolazione ad essere sterminata, ma anche gli Hutu “moderati”, ovvero coloro che si opponevano alla strage, proteggendo persone dell’etnia avversaria, nascondendole all’interno delle loro case.

Netflix, Gli Alberi della Pace

Il film Gli alberi della pace (2021), diretto da Alanna Brown, è ambientato proprio durante il genocidio, tematica già affrontata anni fa nella bella pellicola Hotel Rwanda (2004). Narra la storia di una Hutu incinta che si nasconde in una botola sotto la sua cucina con altre tre donne: una ragazza americana volontaria di un’associazione umanitaria, una giovane Tutsi e una suora. Suo marito fa di tutto per nascondersi, aiutare altra gente Tutsi e tornare di tanto in tanto a portare loro scorte di cibo. Tutta la trama si dipana all’interno della claustrofobica botola, che riesce a ospitare a malapena le quattro donne e non offre neanche la possibilità di stare in posizione eretta. L’unico contatto con il mondo esterno è rappresentato da una minuscola finestrella da cui entra luce durante il giorno e attraverso la quale le quattro protagoniste diventano testimoni delle atrocità che vengono commesse quotidianamente. Dovranno loro malgrado assistere terrorizzate allo stupro e all’omicidio di una donna incinta e anche al massacro di studenti innocenti prelevati dalla scuola dove avevano trovato rifugio. Ogni persona è obbligata ad uscire con un documento d’identità, riportante l’etnia di appartenenza, in modo da poter essere identificata immediatamente. I vicini arrivano a denunciarsi tra loro, vengono redatte delle liste di individui da prelevare e giustiziare, non esiste più lo stato di diritto.

Durante i 90 minuti della pellicola, tutte e quattro mettono a nudo le loro vite, le loro storie e le loro debolezze. L’attrice Eliane Umuhire veste i panni di Annick, la giovane Hutu incinta contraria alle violenze contro l’etnia avversaria; il marito François è un insegnante e sarà poi ricercato come traditore per non aver partecipato alle uccisioni di massa. Jeannette, interpretata da Charmaine Bingwa, è la suora che cerca di mantenere viva la speranza con la preghiera e la fede in Dio, ma nei lunghi giorni di reclusione anche il suo credo inizierà a vacillare. Mutesi, impersonata da Bola Koleosho, è una ragazza Tutsi ben consapevole del fatto che sarebbe la prima ad essere trucidata se qualcuno scoprisse il loro nascondiglio. Senza raccontarlo apertamente, si capisce che è stata vittima di violenze in passato e sfoga spesso i suoi sentimenti di rabbia contro le sue compagne e di odio nei confronti degli uomini. Peyton, con il volto di Ella Cannon, è una volontaria americana in missione di pace in Ruanda. Nonostante la sua vita possa sembrare perfetta, confesserà di aver tentato il suicidio e aver scelto di recarsi laggiù per espiare le sue colpe, tra cui l’essere stata la causa della morte del fratello. Nello zaino ha un libro dal titolo I semi dell’amore. Gli alberi della pace grazie al quale insegnerà a Jeannette a leggere e scrivere in inglese. Il muro della botola diventa una lavagna su cui ogni giorno una nuova linea tracciata le aiuta a rendersi conto del trascorrere del tempo.

Scena di Trees of Peace, 2021

Nonostante il film sia ambientato nello stesso luogo, non diventa mai noioso, ma anzi il susseguirsi degli eventi lo rende incalzante e dinamico. Si parte con la speranza che le forze dell’Onu arriveranno presto e fermeranno la carneficina, che dovranno pazientare solo qualche tempo e si chiude con l’angoscia che quel momento potrebbe non arrivare mai. I giorni scorrono inesorabili sullo schermo, le donne sono sempre più affamate, denutrite, sole, bisognose di acqua e cibo; riescono a ricavare un bagno grazie a un buco nel terreno e non hanno nient’altro se non la speranza e il sostegno che si porgono l’un l’altra, non senza litigi e incomprensioni. Lo shock e la paura sono tangibili, i visi contratti e terrorizzati dominano la scena. Nonostante non ci siano legami tra di loro, finiranno per instaurare un forte attaccamento, arrivando a riflettere sulle loro vite e a comprendere che l’unico modo per sbarazzarsi della violenza è costruire la pace. Le donne sopravvissute al genocidio, infatti, hanno in realtà fondato un movimento politico volto alla ricerca della guarigione e del perdono. I criminali di guerra che hanno commesso stupri e uccisioni sono stati giudicati dai Tribunali Gacaca, istituiti con lo scopo di comminare le pene a chi si è macchiato di tali atrocità, ma con l’obiettivo di promuovere una cultura del pentimento e del perdono, affinché le vittime possano riprendere in mano la propria vita senza il fardello dell’odio e del rancore.

Dopo il terribile genocidio, il Ruanda è ripartito dalle donne. Molte sono state vittime di violenze, altre ancora sono rimaste da sole. Le loro comunità si erano sparpagliate e gli uomini della famiglia risultavano morti, dispersi o in esilio. Le sopravvissute hanno capito che l’unico modo per ricostruire il Paese era la cooperazione, creando realtà associative e svolgendo mansioni e attività solitamente ricoperte dagli uomini. Nel 1996 più di un terzo dei nuclei famigliari era composto da vedove con figli e figlie o da giovani nubili orfane e con fratelli e sorelle più piccoli/e. Iniziarono quindi a costruire case, provvedere al mantenimento della prole, gestire le relazioni con lo Stato, pagare personalmente le tasse e sviluppare attività che consentissero loro di avere un reddito sufficiente a garantire una vita dignitosa. Dopo le elezioni parlamentari del 2018, le donne rappresentano il 68% delle figure politiche, una tra le più alte percentuali al mondo. Le donne, sia Hutu che Tutsi, non vogliono più tornare alle aspre divisioni che hanno insanguinato il loro passato, ma si impegnano per guardare insieme e con fiducia al futuro.

In copertina: scena tratta dal film Gli Alberi della Pace, 2021.

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Articolo di Elisabetta Uboldi

Laureata in Ostetricia, con un master in Ostetricia Legale e Forense, vive in provincia di Como. Ha collaborato per quattro anni con il Soccorso Violenza Sessuale e Domestica della Clinica Mangiagalli di Milano. Ora è una libera professionista, lavora in ambulatorio e presta servizio a domicilio. Ama gli animali e il suo hobby preferito è la pasticceria.

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