Si riprende con questo articolo la trilogia iniziata con Bradamante, guerriera celebrata da Matteo Maria Boiardo e Ludovico Ariosto nei loro poemi cavallereschi incentrati sulla figura del paladino Orlando, prima innamorato e poi folle a causa dell’amore non corrisposto per l’irraggiungibile Angelica.
A riprendere il topos della donna impegnata nel mestiere delle armi è Torquato Tasso, poeta e cortigiano, come i suoi predecessori, ma figlio di un’altra epoca, anche se nato un decennio dopo Ariosto, più precisamente l’11 marzo del 1544, l’anno prima dell’inaugurazione del Concilio di Trento da parte di papa Paolo III, evento epocale che segna l’inizio dell’età della Controriforma. Gli effetti sulla cultura e sulla società cinquecentesca sono enormi: il controllo sulla vita sociale diventa controllo delle coscienze e si esercita soprattutto attraverso il potere culturale e ideologico della Chiesa, che si impone in un panorama ancora connotato dalla libertà di pensiero ereditata dalla cultura umanistico-rinascimentale. Questa lacerazione tra l’ubbidienza all’ideologia controriformista e il sentimento di ribellione mosso dall’adesione agli ideali libertari umanistico-rinascimentali provoca in Tasso un irrisolto senso di colpa per il quale punirsi, al punto di perdersi nella follia come una nuova possibilità, radicale, di esperienza e di espressione. L’instabilità domina la tormentata vicenda biografica dell’autore, nato a Sorrento per contingenze casuali, ma causa di quel senso di sradicamento di cui già Petrarca era stato protagonista. L’infanzia e la giovinezza del giovane Tasso trascorrono all’insegna dei trasferimenti a cui il padre è costretto per seguire il signore di turno presso cui presta servizio, anche lui intellettuale cortigiano come era in voga all’epoca: Sorrento, Salerno e, infine, Napoli sono le mete di questi “pellegrinaggi cortigiani” che Torquato Tasso compie insieme alla madre, Porzia de’ Rossi, e alla sorella Cornelia. Dopo le scuole gesuitiche, il padre lo vuole con sé, e lui si separa definitivamente dalla madre, che morirà senza rivederlo un’ultima volta, e dalla sorella. In questo travagliato contesto familiare, il giovane Tasso non trova pace, costretto a continui cambiamenti dovuti ai diversi signori ai quali il padre chiede protezione.
Dopo aver ricevuto una raffinata educazione umanistica, comincia a Venezia ad avvicinarsi alla produzione poetica con un poema sulla prima crociata che abbozza e a cui attribuisce il titolo Gierusalemme e che sarà la base del suo capolavoro. Dopo un quinquennio di studi e di grandi amori tra Padova, Bologna e poi ancora Padova, nel 1565 Torquato Tasso entra al servizio del cardinale Luigi d’Este, si trasferisce a Ferrara e viene travolto dall’ambiente di corte dove gode delle simpatie delle sorelle del duca, Eleonora e Lucrezia. Qui comincia a scrivere un nuovo poema cavalleresco, il Goffredo, che diventerà poi noto con il titolo di Gerusalemme liberata; è un periodo fecondo, relativamente sereno e probabilmente ricco di amori, come immagina il pittore tedesco Carl Ferdinand Sohn nel quadro che, nel 1839, rappresenta Tasso intento nella scrittura, ma abbagliato dal fascino delle due Eleonore, la principessa d’Este e la contessa di Sanvitale.

I primi anni ’70 sono caratterizzati da un viaggio in Francia, dal congedo dal cardinale d’Este, da un soggiorno a Roma e, infine, dal rientro a Ferrara al servizio, questa volta, del duca Alfonso II, a cui il poeta dedica la sua Gerusalemme liberata che leggerà per la prima volta proprio a lui e alla sorella Lucrezia nell’estate del 1575. All’apice del successo, Torquato Tasso inizia il doloroso cammino verso la depressione: è insoddisfatto del poema, lo sottopone al giudizio di letterati, filosofi, teologi e, nonostante i riscontri positivi, non trova pace fino al punto di presentarlo all’Inquisizione che lo assolve, ma l’angoscia aumenta sempre più al punto da esplodere in vere e proprie crisi psicotiche. A questa situazione si affiancano i difficili rapporti con la corte estense: Tasso prova a passare sotto un altro signore e dà evidenti segni di squilibrio che fanno temere per la vita degli stessi membri della famiglia d’Este; il duca Alfonso decide, quindi, il ritiro del poeta presso il convento di San Francesco, da cui Tasso evade, ed è poi recluso presso l’Ospedale di Sant’Anna considerato ormai pazzo. Delacroix rappresenta questo tragico momento della vita del poeta in un quadro del 1839.

Non sappiamo se il tragico destino di Tasso abbia influito sulla sua fama, sta comunque di fatto che l’interesse per la Gerusalemme liberata aumenta durante la sua reclusione al punto che circolano varie edizioni dell’opera, pubblicate senza il consenso dell’autore che, intanto, trasforma radicalmente il suo poema e, nel 1593, viene pubblicata la Gerusalemme conquistata, un’opera completamente rinnovata, nata dalla riscrittura della Liberata e risultato dell’intenso lavoro che accompagna l’autore dopo essere tornato libero. Inizialmente al servizio del duca di Mantova, meta temporanea del continuo peregrinare degli ultimi anni di vita, Tasso ottiene poi la protezione di papa Clemente VIII e della famiglia Aldobrandini, dedicandosi alla progettazione di opere d’argomento religioso che avrebbero dovuto valergli la tanto agognata incoronazione poetica in Campidoglio, che però non ottiene a causa di una peggioramento delle sue condizioni di salute, che lo costringono nel convento di Sant’Onofrio in Gianicolo dove muore il 25 aprile 1595.
Indugiare sulle note biografiche dell’autore è di estrema utilità per delineare non solo l’opera in cui è inserita la figura di Clorinda, ma anche per comprenderne appieno il suo carattere: le contraddizioni e i misteri della complessa personalità di Tasso fanno emergere sulla scena letteraria la psiche, ma anche la follia, le lacerazioni provocate dalle condizioni di un’epoca storica in cui il potere non ha più contorni definiti e si impone con tratti autoritari soprattutto in ambito religioso. Il confronto con l’autorità rappresenta una delle caratteristiche più innovative dell’esperienza letteraria tassiana e incide anche sulle caratteristiche dei personaggi dell’opera che, oltre a fare i conti con passioni e pulsioni contrastanti, li devono fare anche con il potere e l’autorità religiosa. La scena su cui essi si muovono è la Palestina della prima crociata dove Goffredo di Buglione, cavaliere cristiano, riceve la visita dell’arcangelo Gabriele che lo invita a porsi alla testa dell’esercito cristiano per conquistare Gerusalemme, dove il re musulmano Aladino lo attende, supportato dagli dèi infernali che decidono di mandargli in aiuto una maga, Armida, che seduce vari cavalieri crociati, fra cui Rinaldo, capostipite della famiglia d’Este. Solo la liberazione dei campioni della cristianità permetterà di espugnare la Città Santa, difesa da una schiera di cavalieri musulmani a cui si unisce anche Clorinda.
Donna dalla femminilità prorompente, la cui bellezza risulta intangibile e sdegnosa tanto da risultare insensibile ai piaceri dell’amore, Clorinda sicuramente incarna perfettamente quel drammatico dualismo che lacerò il suo creatore e che è una costante di questo personaggio già dalle sue origini: è figlia di una principessa etiope, ma è nata con la pelle bianca e i capelli biondi. La madre, temendo che il marito, re Senapo, l’accusasse di adulterio a causa del colore della pelle della bambina, l’affida a un servitore, Arsete perché la porti lontano e prega san Giorgio affinché venga battezzata. Fuggito nella foresta, l’uomo incappa in una tigre; per salvarsi, abbandona la neonata e si rifugia su di un albero, assistendo non all’uccisione della piccola, bensì al suo allattamento da parte dell’animale. Arsete cresce la bambina, non rispettando il desiderio della madre, ma educandola alla religione islamica e nascondendole la sua vera identità. La percezione di essere ciò che in realtà non riesce o non può essere è un’altra costante di Clorinda ed è già presente nel secondo canto del poema quando entra in scena per ottenere la liberazione di Olindo e Sofronia, giovani innamorati, accusati di aver rubato un’immagine sacra da una moschea:
«Mentre sono in tal rischio, ecco un guerriero/(ché tal parea) d’alta sembianza e degna;/e mostra, d’arme e d’abito straniero,/che di lontan peregrinando vegna./La tigre, che su l’elmo ha per cimiero,/tutti gli occhi a sé trae, famosa insegna,/insegna usata da Clorinda in guerra;/onde la credon lei, né ’l creder erra» (G.L. II, 38).
È un guerriero, o almeno sembra tale, ne ha l’aspetto e la dignità, nonché l’armatura che però è dotata di un elmo conosciuto, quello della tigre, quello della donna che, neonata, è stata allattata da una tigre e che ora ha scelto quell’animale come sua insegna che la contraddistingue: sembra un guerriero, ma è una donna, una donna guerriera. Il secondo canto continua dicendo che fin da piccola Clorinda aveva disprezzato gli atteggiamenti, le abitudini e i lavori femminili come la tessitura, il cucito e il filato; aveva evitato di indossare abiti morbidi e di rinchiudersi, come era in uso, in luoghi protetti, convinta che anche sui campi di battaglia si potesse mostrare il proprio valore. Ancora bambina aveva imparato a cavalcare, a usare la lancia e la spada e a rafforzare il proprio corpo con duri allenamenti fisici. Infine, si era dedicata alla caccia di animali feroci, come leoni e orsi, con spericolati inseguimenti lungo sentieri montani e boschivi. Paladina dei deboli e di coloro che considera accusati ingiustamente, ottiene la libertà per Olindo e Sofronia, a patto di entrare nell’esercito di re Aladino, che stava combattendo contro quello crociato.

Non solo entra nell’esercito che difende Gerusalemme, ma a Clorinda sono anche riservati ruoli e incarichi prestigiosi: un posto nel consiglio di guerra del re, il comando di una parte delle truppe e, soprattutto, un ruolo consultivo in qualità di esperta di strategia militare al fine di organizzare la battaglia campale che poi si combatterà nel terzo canto del poema. Lei è lì, che guida un primo drappello di soldati contro i nemici, ne affronta subito uno e lo scontro è talmente violento che le lance si frantumano, le cade l’elmo rivelando la sua identità celata dall’armatura. È interessante notare che non sia Clorinda a rivelarsi, come aveva fatto la paladina di Ariosto, Bradamante, ma è il gesto cruento dell’avversario a mostrarci la sua identità. Subito viene riconosciuta dal cavaliere cristiano che l’ha colpita: lui è Tancredi, l’aveva già vista, di nascosto, dissertarsi nei pressi di una fonte e se ne era innamorato. Lei lo colpisce, lui si limita a parare i colpi, poi riesce ad allontanarsi dalla mischia con lei rivelandole il suo amore, ma sopraggiungono altri cavalieri e lei si allontana. Lo scontro continua anche nel canto XI dove Clorinda scocca frecce dall’alto delle mura dell’inespugnabile Gerusalemme, arrivando addirittura a colpire a un ginocchio il condottiero Goffredo, che ordina di sferrare un attacco decisivo, ricorrendo a due torri mobili d’assedio che verranno però date alle fiamme dalla stessa Clorinda e dal cavaliere musulmano Argante. Dopo il brillante sabotaggio, solo lui riesce a rientrare nelle mura della città, lei no; prova a raggiungere un’altra porta, ma è braccata, alle sue spalle c’è Tancredi che la incalza, senza riconoscerla. Clorinda, infatti, non indossa l’armatura con cui è solita scendere in battaglia, le è stata sottratta da Erminia, principessa saracena con cui condivide la stanza e che è innamorata di Tancredi. Per salvarlo, la donna indossa l’armatura di Clorinda, che le permette di provare l’ebrezza di essere ciò che non è e che non potrà mai essere e rappresenta una libertà sconosciuta per chi, come lei, vive da sempre reclusa nelle stanze di un palazzo, invidiando Clorinda per la sua libertà, per la sua abilità nelle armi, per la sua forza e il suo coraggio.
Ritornando a Clorinda, la sua fuga si arresta quando viene sfidata a duello da Tancredi, che ignora chi lei sia e che dà inizio a uno scontro che si rivela subito cruento, intenso e non risparmia né l’uno, né l’altra: Tasso paragona i due a tori appassionati e accecati dalla rabbia. Le spade si urtano ed entrambi fermi sul posto si colpiscono con potenti fendenti, cercando di non sprecare neppure un colpo: sono dominati da un odio inarrestabile che li rende ancor più feroci nel duello, infatti quando le braccia, esauste, faticano a sollevare le spade, si colpiscono con gli elmi e gli scudi. In questo crudele scontro per tre volte Tancredi stringe tra le sue braccia Clorinda e per tre volte lei riesce a slegarsi da questo abbraccio mortale; poi le punte delle spade vanno a segno e aprono in entrambi i corpi innumerevoli ferite. Sfiniti, si appoggiano all’elsa delle loro spade, tendando di riprendere fiato, è Tancredi a comprendere per primo la gravità delle ferite dell’avversaria, si sente orgoglioso e vittorioso per il risultato raggiunto, ma subito arriva lapidario il commento di Tasso che biasima la folle mente umana quando insuperbisce per l’illusione di un soffio di fortuna. Non solo, Tasso continua, anticipando che ogni goccia di sangue di Clorinda, versata a causa del colpo della spada di Tancredi, si trasformerà per lui in un mare di pianto, quello di un uomo che ha provocato la morte della donna che diceva di amare. Prima di prepararsi all’assalto finale, però, Tancredi vuole conoscerne l’identità del cavaliere che sta affrontando e glielo chiede, ma Clorinda si nega, rifiuta di svelarsi e, infine, viene trafitta mortalmente dalla spada dell’avversario. In quell’istante assistiamo a una trasformazione: Clorinda da «rubella», donna ribelle alla legge di Dio in quanto pagana, ma probabilmente anche in quanto guerriera, diventa «ancella», cioè le sue parole di addolciscono, concedono il perdono a Tancredi a cui chiede di essere battezzata e diventare quindi cristiana. L’uomo si lascia guidare dalle parole dell’avversaria agonizzante, si reca a una fonte lì vicino, immerge l’elmo, torna e, togliendole l’elmo per versare l’acqua, la riconosce: è attonito, disperato, la sua mano vacilla, ma alla fine «a dar si volse vita con l’acqua a chi co’ ‘l ferro uccise» e Clorinda muore dopo aver concesso il segno della pace a Tancredi.

C’è chi ha voluto leggere in questa morte la progressiva uscita dalle tenebre del peccato per dirigersi verso una nuova alba di fede; chi invece ha visto nel destino tragico di Clorinda, vestita con abiti maschili e dedita al mestiere delle armi, il reintegro nella sua identità di donna ancella e non ribelle. Qualunque strada intendiamo credere sia la più consona all’interpretazione di questa figura femminile, indubbiamente Clorinda si presenta a noi come un’anima inquieta, come il suo creatore, una giudice severa di sé, una personalità complessa in grado di unire tratti maschili a una femminilità, negata e spesso mostrata solo a seguito di un atto di forza che la costringe a rivelarsi per ciò che è e che forse non vorrebbe essere. Insomma, quello che Clorinda ci offre è l’invito a riflettere sulla nostra femminilità, su come la esprimiamo, sui modi con cui la mostriamo oppure la nascondiamo; se ne andiamo fiere oppure preferiamo non farlo; se ci sentiamo appagate del nostro essere donne oppure inquiete come lei di fronte alla nostra identità di genere. Interrogarsi sull’essere donne e su come esserlo credo sia un potente antidoto contro gli stereotipi, contro l’omologazione a modelli precostituiti di femminilità; è il dono prezioso che ci lascia Tasso con questo personaggio che io ho imparato ad amare anche grazie a un interessante aneddoto legato a uno dei miei luoghi del cuore. Si tratta dell’Isola Maggiore del Lago Trasimeno, in Umbria, che alla fine dell’800 divenne la residenza estiva del senatore Giacinto Guglielmi e della moglie Isabella, che si stabilirono nel castello conosciuto proprio con il nome di Isabella e realizzato grazie alla ristrutturazione di edifici preesistenti, in particolare una chiesa, un monastero e una torre medievale. La figlia di Giacinto e Isabella, Elena Guglielmi, agli inizi del ‘900, introdusse sull’isola la lavorazione del merletto con l’uncinetto attraverso un punto detto d’Irlanda. Le madri, le mogli, le figlie, le fidanzate dei pescatori dell’isola si trovavano in una delle stanze dell’ex convento, ora diventata residenza dei Guglielmi, e lavoravano all’uncinetto ascoltando la lettura della Gerusalemme liberata, opera di cui Elena Guglielmi era appassionata. I nomi delle bambine e dei bambini dell’isola erano quelli degli eroi e delle eroine del poema, in particolare Erminia e Clorinda erano quelli che andavano per la maggiore tra le neonate. Le ricamatrici, che ascoltavano i versi del poema di Tasso, sceglievano i nomi delle proprie figlie dopo lunghe discussioni sul destino dell’una o dell’altra donna del poema e Clorinda era quasi sempre il nome più utilizzato. Chissà forse perché ci affascina irresistibilmente ciò che non siamo e probabilmente non riusciremo mai a essere? O forse perché siamo tutte un po’ Clorinda? Una donna, etiope dalla pelle chiara e dai capelli biondi, nata e morta cristiana, ma cresciuta come musulmana; uccisa mentre combatteva un duello e battezzata dall’uomo che le aveva dichiarato il suo amore, ma che lei aveva rifiutato; una donna che forse voleva solo essere cavaliere, una donna che voleva solo essere libera.
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Articolo di Alice Vernaghi

Docente di Lettere presso il Liceo Artistico Callisto Piazza di Lodi. Si occupata di storia di genere fin dagli studi universitari presso l’Università degli Studi di Pavia. Ha pubblicato il volume La condizione femminile e minorile nel Lodigiano durante il XX secolo e vari articoli su riviste specializzate.