Carissime lettrici e carissimi lettori,
sarà che ci aveva già abituato alla sua ironia. Ma chi non ha voluto capire lo ha fatto, probabilmente, escludendo questo aspetto particolare del suo raccontare, anche nel cinema. Paola Cortellesi, la regista da record di incassi, ha suscitato la polemica di media e social per una manciata di minuti del suo discorso (in tutto diciotto minuti) che era stata invitata a tenere per l’inaugurazione dell’anno accademico della Luiss, l’università romana intitolata a Guido Carli. La critica, partendo dai giornali e finendo nei social, ha tentato una polemica improbabile di segno politico (come altre sorte in questi giorni) oppure, come in effetti è stato, ha prodotto come “ di botto”, commentato e scritto senza aver ascoltato il suo discorso, anzi i tre minuti di tutto il “racconto” poco più ampio (pubblicato poi sul sito della Luiss) fatto dall’attrice e regista davanti alla platea attenta di ragazze, ragazzi e docenti dell’ateneo.
Paola Cortellesi lo aveva già detto, con tutta la sua umiltà, che non avrebbe potuto fare un discorso “accademico” e che lei sapeva raccontare solo “storie”. Ma da parte dell’università e della sua dirigenza non c’era stata obiezione: avrebbe raccontato “storie”. E così è stato.
L’attrice, comica e regista, l’ha fatto, come è accaduto altre volte (molto simili a quella della settimana scorsa a Roma) iniziando a raccontare la storia di Delia, la protagonista del suo primo e fortunato film da regista. Ha cominciato il suo discorso semplicemente, presentandosi con nome, cognome e professione. Ha subito detto che avrebbe parlato del suo film, per il quale ha ricevuto enormi e inaspettati elogi, ma anche tante reazioni forti. Ha definito C’è ancora domani (questo, ormai lo sanno tutti, è il titolo, pieno di speranza, del film ancora nelle sale cinematografiche): «uno spericolato film d’epoca in bianco e nero che, in soldoni, tratta di prevaricazione e violenza di genere. Una mattonata sulla carta, come diremmo in gergo. Con questi presupposti – ha detto Cortellesi, anche qui con un pizzico di sapiente ironia — nessuno si sarebbe mai aspettato un ampio gradimento della pellicola. Invece, contro ogni pronostico, questo film ha avuto un successo travolgente, ha battuto molti record e al momento è stato visto nelle sale cinematografiche da più di 5 milioni di persone. Io – ha preso a raccontare di sé Cortellesi — ho iniziato il mio lavoro come attrice quasi trent’anni fa e, nel mio settore, ho avuto molte soddisfazioni, ricevuto importanti riconoscimenti. Ma ultimamente, intorno al clamore suscitato dal film, l’interesse nei miei confronti è cresciuto spropositatamente. Questo – sottolinea — a volte genera cose anche spiacevoli come gli adulatori, da cui bisogna sempre guardarsi, e una certa diffusa aggressività di alcuni nel tentativo di trarre vantaggio da questi miei pochi minuti di popolarità. Fenomeni passeggeri e di nessun conto rispetto ad esperienze magnifiche e per me eterne, come incontrare la commozione sincera delle persone in sala a fine proiezione e la condivisione spontanea di momenti importanti, a volte duri, della loro vita. Tante cose belle e piacevoli, come la telefonata di Luigi Gubitosi, quando mi ha chiamata per propormi di essere qui oggi nella cerimonia di apertura dell’anno accademico di questa università…. mi sentivo orgogliosa di parlare agli studenti ma (ho detto) che sarebbe forse stato meglio chiamare persone competenti…perché le mie conoscenze non hanno molto a che vedere con i corsi di studi di questa università e che le mie competenze si limitano a raccontare storie».
Le storie che Cortellesi ha poi riportato, che formano e rimandano a La Storia del mondo e soprattutto delle donne e che collegano, per tanti versi, la Delia di Cortellesi a Ida, la protagonista del libro di Elsa Morante, un’opera anche questa molto “chiacchierata”, demonizzata e adorata contemporaneamente.
Le storie delle donne e perché no, anche quelle delle protagoniste e antagoniste delle fiabe. Di questo ha parlato Paola Cortellesi all’interno del suo discorso inaugurale. Come ha osservato la tessa regista, le fiabe non sono da cancellare in quanto racconti, ma i loro personaggi, maschili e femminili, sono lo specchio della società che li circonda al momento del racconto. Insomma, niente cancel culture di cui è stata accusata la regista romana.
Le storie si raccontano con le parole. È sempre il linguaggio, sempre il gioco con le parole, il far capire con qualcosa (portare un esempio) per far comprendere altro, un contesto altro. «Delia – Cortellesi comincia a raccontare di nuovo il suo film — accetta la vita che le è toccata e se tutto procedesse come stabilito la nostra storia finirebbe qui. Se non ci fosse l’ostilità dei genitori di Giulio, se non ci fosse tutto quel fermento in città, se non avesse incontrato Nino, il suo primo amore, e se non avesse ricevuto una misteriosa lettera che le toglie il sonno e che le darà il coraggio per cominciare a immaginare un futuro migliore». A questo punto la regista si collega alla fiaba e dice: «Detta così – esordisce – sembra una delle trame di tante fiabe per bambine, sempre po’ sinistre. Voi ne conoscete qualcuna immagino. Cenerentola o Biancaneve. Narrano sostanzialmente di giovani sprovvedute, dotate di rara bellezza, con un’ingenuità disarmante, ai limiti della patologia. Subiscono angherie di ogni genere da altre donne malvagie. La matrigna sfrutta Cenerentola, ragazza bravissima nelle faccende domestiche —. continua, ricalcando l’ironia di quel discorso fatto tanto tempo fa, era il 2018, da lei stessa alla consegna del Premio Donatello —. La matrigna tiene nascosta l’avvenenza della ragazza al principe. Ma grazie a una magia Cenerentola si mostra in tutto il suo splendore per un paio d’ore perché il principe se ne innamori perdutamente. La matrigna la tiene nascosta, ma lui, scaltro, la ritrova e la riconosce non perché l’aveva vista in viso, ma per i suoi piedi sproporzionatamente piccoli. La salva e la sposa». Poi Cortellesi passa a Biancaneve: «La regina matrigna di Biancaneve è ancora più canaglia. Lei è di fatto la mandante del tentato omicidio di Biancaneve. Perché lo fa? Perché vuole essere lei la più bella del reame! Quindi anche con l’aggravante dei futili motivi — e qui l’attrice e regista suscita l’ilarità di tutta la platea che non pensa a una macchinazione di cancel culture, ma comprende tutta l’ironia dell’interpretazione sessista —. Il cacciatore, uomo coraggioso e di buon cuore, non ce la fa ad uccidere Biancaneve perché troppo bella. Se fosse stata una cozza – continua alzando il livello dell’ironia — l’avrebbe anche squartata però è così bella, ingenua come un cucciolo di labrador, e la lascia andare. Biancaneve poi incontra i sette nani presso i quali si adopera per un periodo come colf… Nonostante le mille raccomandazioni la ragazza si fida di una vecchia orrenda e morde la mela avvelenata. Muore, risorge. Grazie a chi? Al principe che la bacia, se ne innamora perdutamente, sempre perché è bella. La salva e la sposa. Ecco – conclude Cortellesi – le ragazze sono bellissime, per carità, ma un po’ stralunate e trovano la loro realizzazione nel matrimonio. Con un principe, un estraneo, che sposano subito, senza pensarci, senza nemmeno esserci uscite una volta a cena!».
Non è questa anche la trama di C’è ancora domani? È la sorte toccata alle donne nella Storia. Le donne hanno accettato di vivere la loro piccola storia personale. Hanno accolto il matrimonio e tutte le conseguenze, dal marito violento, al suocero che rimprovera il figlio di non aver sposato una cugina, più “docile” alle abitudini familiari. «Delia è talmente ingiusta — commenta Cortellesi, creando la connessione tra i due racconti — da sembrarci la versione deprimente della più scontata delle fiabe per bambini. Invece è storia e la storia piuttosto consueta di una famiglia qualunque nella seconda metà degli anni ’40. Riceve uno schiaffone in pieno viso? Come se niente fosse! Ecco io avevo in mente questa immagine e il desiderio di mettere in scena, attraverso Delia, le donne che ho immaginato dai racconti delle mie nonne e bisnonne. Vicende vere, drammatiche, però narrate con disincanto e addirittura con la volontà di sorriderne. Storie di vite dure, condivise con tutti nel cortile, gioie e miserie, tutto in piazza. C’erano le donne comuni, quelle che non sono passate alla storia, quelle che hanno accettato una vita di prevaricazioni perché così era stabilito, senza porsi domande questo è stato». E poi il racconto passa ai femminicidi: «Le donne hanno fatto grandi passi in avanti. Ma la cronaca ci racconta che in Italia si consuma un femminicidio ogni 72 ore. Donne assassinate per la sola ragione di essere donne, il più delle volte per mano di uomini che dicevano di amarle così tanto da considerarle una loro proprietà. Nel nostro paese ci sono uomini, anche giovanissimi, che non hanno le capacità di gestire un rifiuto, che non tollerano l’emancipazione, l’indipendenza e l’allontanamento da parte della donna. Credono di amare e, nei casi più tragici, l’amore si traduce in o sei mia o di nessuno». Non era questa l’essenza del discorso fatto dalla stessa attrice/comica/regista, nel 2018, alla premiazione del David di Donatello? Allora, come altre volte, aveva indotto tutte e tutti alla risata, alla comprensione di una realtà (almeno si spera!) attraverso il gioco delle parole sull’equivoco dei nomi posti al maschile e positivi e trasportati poi al femminile, rivolti a una donna che sempre, alla fine, risulta appellativo di “mignotta”, come un epiteto dispregiativo, ma soprattutto, con una forte carica sessista e con una differenza, un gap, come si dice ora, di genere grandissimo. Mi scuso con voi per la lunghezza, ma ho scelto di riportare quasi per intero i diciotto minuti del discorso di Paola Cortellesi alla Luiss perché mi è sembrato intenso, pregnante, bello e nelle corde degli intenti primari di questa rivista: stare dalla parte del rispetto!
Il rispetto e il peso delle parole giocato sui media e social sono stati al centro di un altro evento triste di questa ultima settimana e, purtroppo “usato” per altri fini, strumentalizzato dalla politica. Il probabilissimo suicidio della proprietaria di una pizzeria nel territorio di Lodi. Tutto nato dalle parole: quelle scritte in una recensione via internet e la risposta a questa (forse entrambe false) create, probabilmente per leggerezza dalla stessa proprietaria non tanto per far crescere il numero di clienti, ma, più probabilmente con l’intento di dimostrare con ancora più forza (la pizzeria già aveva adottata la pizza sospesa!) la propria posizione contro l’omofobia e il razzismo, sia verso le persone straniere che verso chi è portatore di un handicap fisico.
Il triste epilogo ci ha portato tutte e tutti a una riflessione che già da tempo doveva emergere da quel sottobosco di dubbi sull’uso (e abuso) dei social e delle tastiere che ne sono alla base. Oggi sul caso della signora Giovanna Pedretti, ritrovata senza vita nel fiume Lambro, si è scatenata una bufera politica e mediatica. Si è parlato di informazione-gogna e di responsabilità giornalistica e della necessità (questo è sì fondamentale!) di una regolamentazione dell’uso dei social attraverso leggi precise. La ristoratrice lodigiana è passata, nel giro di poco tempo da icona a menzognera: «Sarebbe bene – ha detto in un’intervista il giornalista Andrea Scanzi — che il governo facesse quello che non hanno fatto i governi precedenti, cioè delle leggi durissime affinché le persone che frequentano i social sappiano che se insulti sui social è comunque un reato, è comunque diffamazione. Perché c’è ancora un sistema per cui il virtuale è qualcosa dentro il quale fai quello che vuoi e quindi il social diventa uno sfogatoio. Tutti i social sono potenti, sono forti, pericolosi, una bomba a mano, come diceva Jannacci della televisione che, secondo il cantante lombardo ha una forza da leone e ti addormenta come un “coglione”. Questo ora vale per i social e vale ancora di più perché i social sono frequentati non solo dagli addetti ai lavori ma anche da quelli che non sanno niente di comunicazione…Dobbiamo stare attenti/e, che siamo politicamente a destra o a sinistra, a maneggiare i social perché anche in buona fede si possono creare tempeste che lasciano esanimi. Devi avere un vaccino, degli anticorpi altissimi, per sopportare tutto quello che ti arriva». Il rettore dell’università per stranieri di Siena, Tomaso Montanari, ha rafforzato il concetto: «la nostra non è una città felice e non è una società in cui il risentimento verso lo stato delle cose venga incanalato in qualcosa di costruttivo. La politica, come diceva don Milani, dovrebbe essere l’arte di sortirne insieme. Una politica che non fa il suo mestiere, che non usa, che non pratica il conflitto in maniera costruttiva per cambiare il mondo, abbandona tutti alla loro solitudine. C’è una rabbia che non si incanala nella forza di cambiare qualcosa tutti insieme, ma si sfoga in questa maniera distruttiva colpendo con la forza enorme del mezzo di cui si abusa. Le singole persone sono sole, siamo in una grande solitudine e non ci sono aggregazioni. La politica allora non può usare a proprio tornaconto un episodio come questo. Deve, invece, interrogarsi sul vuoto che c’è e non fomentare altro odio, contro i diversi, i migranti, i diversamente abili, gli omosessuali».
Arriviamo alla consolazione della poesia. Sempre fatta di parole che danno forza alla mente e al cuore, da cui viene la parola “coraggio”. Di verità e coraggio ne abbiamo bisogno, in questo difficile tempo di guerre.
La poesia si intitola Quel che è vero. A scriverla una donna, Ingeborg Bachmann (1926-1973), austriaca, rappresentante del gruppo 47 che ha svolto un ruolo importante nella ripresa della letteratura dopo la seconda guerra mondiale.
Però vorrei permettermi e proporci una “doppia dose”: una poesia-canzone sulle parole, intitolata proprio Le parole scritta a quattro mani da Gianni Rodari e dal da me amatissimo Sergio Endrigo insieme a Luis Enrique Bakalov. Davvero bella, divertente e in tema con questo editoriale!
Quel che è vero
Quel ch’è vero non sparge sabbia nei tuoi occhi,
per quel ch’è vero morte e sonno con te si scuseranno,
come incarnato, saggio per ogni dolore,
quel ch’è vero smuove la pietra dal tuo sepolcro.
Quel ch’è vero, caduto ormai, slavato
seme o già foglia, nel letto malsano della lingua,
un anno e un anno ancora ed ogni anno –
quel ch’è vero non crea tempo, lo salva.
Quel ch’è vero discrimina la terra,
pettinando sogno serto e coltura,
alza la cresta e colmo di frutti strappati
ti folgora, prosciugando ogni cosa.
Quel ch’è vero non spera la scorreria
quando per te forse è in gioco tutto.
Sei la sua preda, se le tue ferite sgorgano;
nulla ti assale, che non ti tradisca.
Giunge la luna, con brocche avvelenate.
Bevi il tuo calice. L’amara notte cala.
La feccia schiuma su penne di colombe,
se un ramo non è portato in salvo.
Schiavo del mondo, sei gravato di catene,
ma quel ch’è vero nel muro apre le crepe.
Vegli e nel buio vai scrutando intorno,
a ignota via d’uscita tu sei volto.
Le parole
Abbiamo parole per vendere,
Parole per comprare,
Parole per fare parole.
Andiamo a cercare insieme
Le parole per pensare.
Andiamo a cercare insieme
Le parole per pensare.
Abbiamo parole per fingere,
Parole per ferire,
Parole per fare il solletico.
Andiamo a cercare insieme,
Le parole per amare.
Andiamo a cercare insieme
Le parole per amare.
Abbiamo parole per piangere,
Parole per tacere,
Parole per fare rumore.
Andiamo a cercare insieme
Le parole per parlare.
Andiamo a cercare insieme
Le parole per parlare.
Gianni Rodari e musiche di Sergio Endrigo
Buona lettura a tutte e a tutti.
«La storia del camminare è una storia non scritta, segreta, i cui frammenti si possono rintracciare con parole semplici in migliaia di passi di libri come anche di canzoni, nelle strade e in quasi tutte le avventure di ciascuno/a di noi». Apriamo le presentazioni di questa settimana con le parole di Rebecca Solnit, tratte dal suo Storia del camminare, perché due degli articoli più interessanti sono proprio dedicati a due pioniere del viaggio e del cammino: Gertrude Bell o la regina del deserto. Trionfi e dolori di una donna eccezionale e La viaggiatrice leggera, un giro del mondo in solitaria compiuto da Katharina von Arx, una delle più famose giornaliste elvetiche, nell’arco di otto mesi. Continuiamo a viaggiare con un’altra puntata della Serie “Lovely planet”, che questa volta riguarda gli States: Washington, la capitale dell’anno con Giovanna De Maio. Il passo dei pensieri doveva conoscerlo molto bene, per lavoro, anche un’altra grande donna. L’autrice di Ricordando Berenice, la “giornalista con la treccia” ce la farà conoscere da vicino. Ci spostiamo idealmente a Caserta, con un’altra relazione dal nostro ultimo Convegno nazionale: I viali delle pari opportunità. Sintesi del primo tavolo, in cui affronteremo anche la toponomastica dell’antimafia. Da Caserta risaliamo nelle Marche con la relazione di un bellissimo percorso, premiato sia al concorso marchigiano che a quello di Toponomastica femminile, che ha avvicinato le scuole ai luoghi e alle persone che hanno scelto di schierarsi con i partigiani: Il sentiero di Antonietta. Un viaggio multimediale nella Resistenza sul Monte Strega.
Passiamo dalla terra all’oceano con Il fondo degli oceani non è una scodella, che ci farà incontrare la donna cui si deve la mappatura del fondo degli oceani. Un giretto virtuale molto stimolante tra le parole dell’anno, scelte nelle diverse lingue, è quello raccontato dall’autrice di Uno sguardo all’anno trascorso: le parole del 2023. Il viaggio nella cucina vegana di questa settimana ci insegna invece a preparare le Polpette di melanzana vegane.
Continuano le nostre serie: per “Credito alle donne” intervistiamo la Presidente dell’associazione iDEE ( prima o poi spiegheremo del perché il logo si scrive così) Teresa Fiordelisi, in un articolo che affronta un tema importante: La solidarietà delle donne, auspicata e agita. Per “Grecità” questa volta ci occupiamo di Demetra la madre, Persefone la figlia, in una bella passeggiata tra miti e poesie. Dalla poesia alla musica il passo è breve: Sulpitia Lodovica Cesis, compositrice di Spiritual beauty è il racconto biografico della compositrice cui è dedicata questa settimana “Calendaria 2024”.
Il racconto del nostro nuovo Laboratorio “Flash-back”, a cui vi invitiamo sempre a partecipare con i vostri contributi, questa volta è dedicato A mia madre e indaga sul rapporto madre-figlia, fatto di luci e di ombre.
Chiudiamo questa volta spostando il focus dalle due guerre (ma ce ne sono molte di più, purtroppo, nel mondo) che ci sono raccontate ogni giorno dai media, con la prima parte della recensione del dossier del Giga (Gruppo di docenti di Geografia autorganizzati) sull’ Economia di guerra nell’area dell’Asia Pacifico, che in questi giorni sta di nuovo accendendosi, perché, anche se può sembrare difficile, occuparsi di quanta parte della ricchezza del mondo va sprecata nell’acquisto di strumenti di morte è il dovere di ogni persona che abbia a cuore le sorti dell’umanità e della Terra, in particolare di quelle donne semplici, raccontate anche nel film di Cortellesi, che alle guerre nella storia sono sempre state estranee.
SM
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Articolo di Giusi Sammartino

Laureata in Lingua e letteratura russa, ha insegnato nei licei romani. Collabora con Synergasia onlus, per interpretariato e mediazione linguistica. Come giornalista ha scritto su La Repubblica e su Il Messaggero. Ha scritto L’interpretazione del dolore. Storie di rifugiati e di interpreti; Siamo qui. Storie e successi di donne migranti e curato il numero monografico di “Affari Sociali Internazionali” su I nuovi scenari socio-linguistici in Italia.
