Editoriale. Come è profondo il mare 

Carissime lettrici e carissimi lettori,  
il grande assente dello scorso editoriale non è stato un uomo. È stato un naufragio. Accaduto venerdì scorso nelle acque dell’Egeo, davanti alla Grecia. Più che i morti si contano i vivi, cento persone e la sproporzione è terribile, se sono reali le cifre ipotizzate riguardanti le persone che si erano imbarcate: probabilmente settecento!  
Si può dire che con il singolare collettivo sottintendiamo l’assenza della tragica notizia della morte di centinaia di vite: di donne, di uomini e di tanti e tante bambine e bambini finiti in fondo al mare, sui fondali di quella parte del Mare nostrum che si chiama Egeo, uno dei mari tra le terre (davanti alla Grecia) che non sempre proteggono le persone che chiedono aiuto. Persone come queste di oggi, ma anche di ieri e ieri l’altro, che continuano a provare a fuggire dalla disperazione, anzi, dalle disperazioni, al plurale, parafrasando la magnifica apertura di uno dei più belli e importanti romanzi dell’Ottocento sulla famiglia e su una donna dal cui nome prende il titolo, Anna Karenina, scritto nel 1877 dal conte russo Lev N. Tolstoj. 
Donne, uomini, bambini e bambine, spesso nascosti/e nella stiva di navi troppo vecchie e non più abili o mai state capaci di portare un carico così pesante. Diciamo che poco importa se l’acqua che ha ricoperto per sempre persone in cerca di salvezza sia quella davanti alla Grecia o nel mare di Cutro in Calabria, in Italia. 

Ci interessa, ci coinvolge ed esige pietà e giustizia la ripetizione, praticamente identica di queste situazioni. Sembra che ogni naufragio non abbia insegnato nulla per evitare che quello successivo si verifichi. Ineluttabile. Questo ultimo, accaduto venerdì della scorsa settimana, somiglia troppo a quelli precedenti, tutti uguali, ma tutti singolarmente diversi, con speranze, attese, coraggio da mettersi dentro, nel cuore, e di mondi da lasciare alle spalle. «Si esce di casa solo quando la casa non ti permette di restare» ha gridato una madre pachistana, la comunità più colpita in questo naufragio con sicuri 400 morti.  
Le associazioni, le ong che sono in prima linea nell’aiuto ai naufraghi chiedono interventi all’Europa. Da Amnesty International a Danish Refugee Council, da Hias Europe a Human Rights Watch a International Rescue Committee, fino a Medici senza frontiere, Missing Children Europe, Oxfam, Save the Children, SoS Children’s Villages International chiedono un’indagine completa sulla tragedia: «Ancora una volta – affermano le organizzazioni — decine di vite sono state perse alle frontiere dell’Europa a causa dell’incapacità dell’Unione europea di permettere alle persone in cerca di protezione di raggiungere l’Europa in modo sicuro. Centinaia di persone sono disperse e si teme siano morte dopo l’ultima tragedia avvenuta vicino alle coste greche; secondo quanto riferito, tra i morti ci sono molte donne e minori che erano presenti sottocoperta del sovraffollato peschereccio. Le autorità di diversi Stati membri sono state informate dell’imbarcazione in difficoltà molte ore prima del suo rovesciamento e anche un aereo di Frontex era presente sulla scena». La stessa situazione che si era verificata a Cutro. Perciò la richiesta di un’indagine completa su queste morti, in particolare sul ruolo degli Stati membri dell’Ue e sul coinvolgimento di Frontex. «Esortiamo — scrivono ancora — la presidente della Commissione europea, Ursula Von der Leyen, ad assumere finalmente una posizione chiara rispetto al cimitero a cielo aperto alle frontiere terrestri e marittime dell’Europa e a richiamare gli Stati membri alle proprie responsabilità – si legge nell’appello — Chiediamo un sistema di asilo europeo che garantisca alle persone il pieno rispetto del diritto di chiedere protezione. L’Ue dovrebbe abbandonare la narrativa che attribuisce la colpa dei naufragi ai trafficanti e cessare di vedere soluzioni solo nello smantellamento delle reti criminali. Esortiamo l’Ue e gli Stati membri a istituire nel Mar Mediterraneo operazioni di ricerca e salvataggio proattive e guidate dagli Stati. Per troppi anni abbiamo ascoltato parole vuote da parte della Commissione europea e degli Stati membri dell’Ue, che si sono detti preoccupati, rattristati e sgomenti per la perdita di vite umane senza agire. Questa volta deve essere diverso. È ora di proteggere finalmente le vite e i diritti delle persone che cercano sicurezza in Europa». Così finalmente si mortifica la validità dei tentativi di sola caccia al trafficante nel globo terracqueo che sembrava la soluzione ineluttabile a che queste morti non accadessero più. Invece sono bastati pochi mesi e la tragedia si è triplicata.  
La stiva del peschereccio affondato era piena di bambini, circa 100, secondo quanto ha testimoniato un superstite, seppure ancora non confermata ufficialmente. Di fatto, quel che è avvenuto a largo del Peloponneso greco, a 80 km a largo di Pylos, è una nuova tragedia dell’immigrazione nel mare. «Le poche foto aeree diffuse del traghetto sovraffollato, lungo circa trenta metri, mostrano centinaia di uomini che guardano in alto, chiedono aiuto con le braccia tese. Sottocoperta, nella stiva, si trovavano, secondo i testimoni, le donne e i bambini, chiusi dentro dai trafficanti. Nessuno sapeva nuotare, nessuno aveva giubbotti di salvataggio, i pochi che si sono salvati erano aggrappati a pezzi del relitto».

Secondo la guardia costiera greca i migranti avrebbero rifiutato qualsiasi assistenza perché volevano andare in Italia. Alarm Phone smentisce, sostiene di aver avvisato la guardia costiera della barca in difficoltà, sin dal pomeriggio di martedì, e che il governo di Atene non si è mosso in tempo. «Dalle due del pomeriggio del 16 giugno, l’imbarcazione avrebbe cominciato a barcollare, a sbandare da destra a sinistra fino a che non si è capovolta. In 10/15 minuti la barca è affondata del tutto. Il capitano sarebbe riuscito a fuggire su una piccola imbarcazione. C’erano siriani, egiziani, pakistani, palestinesi. Ciascuno/a avrebbe pagato fino a 6000 dollari per salire sul peschereccio salpato da Tobruk in Libia e inabissatosi 80 chilometri al largo di Pylos». Ma è appena agli inizi l’indagine per ricostruire l’accaduto. Da subito sotto accusa è finita la Guardia Costiera greca: «diciannove telefonate per chiedere aiuto sarebbero arrivate in 13 ore dalla prima segnalazione fornita peraltro martedì scorso dalle autorità italiane. Il natante di 30 metri da cinque giorni era senza acqua e con già sei cadaveri a bordo». Un’attivista italiana, che da anni segue e si occupa personalmente di tanti migranti, Nawal Soufi, è stata tra le prime persone contattate da chi si trovava nel peschereccio affondato a largo della Grecia: «Mancava l’acqua, le persone avevano bisogno di aiuto, c’erano sei cadaveri a bordo, tra cui un sedicenne, e delle persone avevano avuto dei malori. Ho sentito l’entusiasmo quando si è avvicinato un elicottero — racconta Soufi in un’intervista —. La sera un uomo mi ha raccontato di una nave che si è avvicinata e ha legato la loro barca con due corde. Hanno avuto paura. Non capivano se era un’operazione di soccorso o se questa nave poteva portarli verso il naufragio. Per paura di morire si sono allontanati, questa è stata l’ultima chiamata tra me e loro». 
Da quel 3 ottobre del 2013 che registrò nelle acque davanti all’isola di Lampedusa quasi 400 morti, ci sono state altre catastrofi del mare. Nel canale di Sicilia il 18 aprile 2015 vennero salvate 28 persone e 58 furono le vittime ufficiali, ma si suppone che a morire siano state tra le 700 e le 900 persone. Questo triste dato ruberebbe tragicamente il primato all’attuale ultimo disastroso naufragio di una settimana fa, nel mar Egeo. La lista continua. Solo pochi mesi dopo l’ecatombe nel Canale di Sicilia, arriva alle cronache l’indimenticabile foto del piccolo Alan Kurdi, un bambino siriano di etnia curda, uno dei tanti, di tre anni, diventato simbolo. La foto, scattata da una giornalista che lo ritrae senza vita su una spiaggia della Turchia, commuove il mondo intero. Insieme con la sua famiglia, dopo alcuni tentativi falliti di raggiungere legalmente i famigliari in Canada, Alan si era imbarcato su un gommone che da Bodrum cercava di raggiungere l’isola greca di Coo, a soli quattro chilometri. Ma la barca si rivoltò e i giubbotti di salvataggio si rivelarono anche questa volta inservibili.  
Poi arriva la notte tra il 25 e il 26 febbraio di quest’anno. Davanti a Cutro, lungo la costa calabrese, muoiono ufficialmente 94 persone tra cui 34 minori: un caicco salpato dalla Turchia, con almeno 180 persone a bordo, si arena su una secca a poche decine di metri dalla costa. Il mare forza quattro riduce in pezzi l’imbarcazione, che si trasforma in una trappola mortale per molti di loro. Questa volta, venerdì scorso, i ragazzini sono più di 100, chiusi dentro, intrappolati nella stiva e annegati per forza. A conti fatti, da dieci anni a questa parte si stimano almeno 25mila morti in mare, ma la cifra è molto approssimativa perché sono tante, secondo le testimonianze, le barche che spariscono nel nulla senza che nessuno le abbia viste. Secondo l’Iolm (The International Organization for Migration) «dal 2014 a oggi nel Mar Mediterraneo sono morti o sono andati dispersi 26.089 migranti. L’anno con più vittime è stato il 2016, con oltre 5.100, mentre il più basso è stato il 2020 con circa 1.450. I dati del 2023 parlano finora di oltre 330 morti e dispersi. La tratta più letale appare il Mediterraneo centrale, con l’80% delle vittime. Il 12% avviene nel Mediterraneo occidentale e l’8% in quello orientale»  

Come in un film da rimandare a ritroso o una seduta di terapia ipnotica portiamo la mente ancora indietro nel tempo di questo mese e arriviamo ai suoi primi giorni. Precisamente al 2 giugno: la Festa della Repubblica, quando gli italiani e soprattutto le italiane preferirono la democrazia repubblicana alla monarchia per cancellare (non dimenticare!) il ventennio fascista. Avevamo osservato (era sabato ed era uscito l’editoriale) che una sfilata militare ci sembrava forte e fuori luogo: per il triste periodo di guerra che stiamo vivendo in Europa, per la considerevole spesa a carico dello Stato, per un antipacifismo che cacciabombardieri, carrarmati, militari con mostra di armi indicano in tutto questo. 
Ma c’è stato anche altro. Un gesto. Il solito gesto del braccio in alto di ogni anno, alla sfilata militare, da parte della Marina che passa davanti al Presidente di questa Repubblica acclamando alla Decima Mas (la flotta della fanteria marina, un tempo anche di Valerio Borghese). Solo che questa volta il segnale e il grido sono stati accompagnati da un segno di vittoria. A mostrarlo è la seconda carica dello Stato, il presidente del Senato. Il gesto non è sfuggito a un’intellettuale di spessore come Michela Murgia che, rispondendo alle polemiche suscitate dalla sua osservazione (e non è stata la sola) ha tratteggiato in un discorso reale il pensiero che a me era rimasto solitario nel cuore: «Io sono un’antimilitarista non è un mistero – premette, e ci dona la sua idea di parata di pace —. Sarebbe bello – immagina — se un paese civile in pace facesse sfilare le espressioni della sua migliore vita democratica. Io ho un sogno. Immaginatevi i vostri figli che un giorno ai Fori Imperiali vi chiedono mamma chi sono quelli che aprono la parata? Voi potreste rispondere, ah sono gli artisti e le artiste di questo paese che ci ricordano perché cercare la bellezza è quello che ci rende umani anche nell’orrore più grande. E mamma chi sono quelli? Sono i dottori, i medici e le mediche che ci salvano tutti i giorni dalle malattie e che ci hanno salvato dalla pandemia morendo e sfinendosi, perché noi potessimo guarire o non ammalarci. E quegli altri, mamma, chi sono? Sono il corpo degli insegnanti grazie al quale, se studi, sarai in grado di diventare quello che vuoi. E questi altri chi sono, mamma? Sono i cento più onesti contribuenti che rendono possibile mantenere i servizi dello Stato sociale. Quegli altri? Quegli altri con la penna in mano sono i giornalisti e le giornaliste. Sono le persone che garantiscono l’informazione libera di questo paese. Pensa, figlio/a mio/a, dove la democrazia non c’è queste persone con la penna in mano non potrebbero neanche fare quel lavoro! Che lezione di civiltà ne verrebbe fuori e nel mentre, in cielo, volerebbero gli aquiloni». Ma noi stiamo solo sognando. Stiamo fantasticando insieme a una delle più importanti e coinvolgenti intellettuali italiane che ha il coraggio di parlare della vita attraverso la morte e l’esperienza dolorosa e personale della sua malattia.  

Poi a Roma, tra le strade di un quartiere residenziale, alcuni giovani sfrecciano con un Suv di oltre 100.000,00 euro di valore. I ragazzi, che passano le giornate sui social a conquistare followers, l’hanno affittato per 1.500,00 euro al giorno e promettono al pubblico che li segue di rimanere in macchina per cinquanta ore, vale a dire due giorni abbondanti. L’allegra compagnia (forse positiva alla cannabis e chissà a cos’altro) perde il controllo della Lamborghini che, sembra dopo un sorpasso azzardato, si schianta su una Smart con una mamma e due bambini di ritorno dall’asilo. Uno di loro, il piccolo Manuel, cinque anni, muore.  
Oltre il ripudio del gesto e di quello che sottintende, dipendenza da un mondo a-sociale o dis-umano, diamo uno sguardo anche al codice della strada che al secondo comma pone un interrogativo che coinvolgerebbe anche la concessionaria da cui è stata affittata la macchina: «I neopatentati il primo anno non possono guidare veicoli con un rapporto peso/potenza superiore ai 55 kw/t e con una potenza massima superiore ai 70 kw (95 Cv)». La Lamborghini noleggiata, nella sua scheda tecnica, riporta una potenza di 478 kw, equivalenti a 650 cavalli. Si tratta di oltre 400 kilowatt in più di quello consentito e oltre 500 i cavalli in più. Adesso bisogna stabilire chi dei cinque aveva conseguito la patente da oltre un anno. Un’altra domanda alla quale non potrà rispondere il codice della strada e che ci incuriosisce tristemente è: «Come hanno fatto cinque universitari a potersi permettere di spendere 1.500 euro al giorno per noleggiare quell’auto?». Guadagni dai social? Una vita, tutta davanti, valeva molto di più! 

Francesco Guccini di questo mese che se ne sta per andare e che apre all’estate e al calore sempre più intenso canta: «Giugno, che sei maturità dell’anno, di te ringrazio Dio. In un tuo giorno, sotto al sole caldo, ci sono nato io, ci sono nato io. E con le messi che hai fra le tue mani ci porti il tuo tesoro. Con le tue spighe doni all’uomo il pane, alle femmine l’oro, alle femmine l’oro». Nato a Modena il 14 giugno 1940, tutte e tutti gli diamo gli auguri di un buon compleanno, scusandoci per il ritardo, come si dice. Gli dedichiamo il luogo della poesia di questo editoriale iniziato con il rimando ad un altro grande cantautore emiliano, Lucio Dalla, con la malinconia del suo mare profondo. Di Francesco Guccini abbiamo amato e amiamo tutte le canzoni, l’intera poesia dei suoi personalissimi versi universali. Ma tra le più amate (da Cirano a Don Chisciotte a Il vecchio e il bambino) ho preferito Dio è morto. L’ho scelta per questi nostri auguri al Maestro di Pavana (che vuole diventare territorio emiliano) perché è una delle canzoni più note e più belle di Guccini, che la scrisse a 25 anni e all’inizio del periodo della contestazione. Ma è anche la più classica e la più attuale con i suoi riferimenti. Censurata dalla Rai, ma stimata dall’allora Pontefice Paolo VI, che permise la sua trasmissione a Radio Vaticana, Dio è morto è attualissima, una denuncia contro il conformismo, il carrierismo, l’ipocrisia, che ha fatto epoca. L’incipit, come lo stesso Guccini spiegò, gli fu ispirato da una famosa poesia dello statunitense Allen Ginsberg scritta alcuni prima, che diede il via alla beat generation, Howl (“Urlo”): «Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia».  
«Certo, il dio di cui parlavo era un dio con la minuscola, un dio laico simbolo dell’autenticità» (Guccini). 

Ho visto 
la gente della mia età andare via 
lungo le strade che non portano mai a niente,  
cercare il sogno che conduce alla pazzia 
nella ricerca di qualcosa che non trovano 
nel mondo che hanno già, dentro alle notti che dal vino son bagnate,  
dentro alle stanze da pastiglie trasformate,  
lungo alle nuvole di fumo del mondo fatto di città, 
essere contro ad ingoiare la nostra stanca civiltà 
e un dio che è morto, 
ai bordi delle strade dio è morto,  
nelle auto prese a rate dio è morto,  
nei miti dell’ estate dio è morto… 
 
Mi han detto 
che questa mia generazione ormai non crede 
in ciò che spesso han mascherato con la fede,  
nei miti eterni della patria o dell’ eroe 
perché è venuto ormai il momento di negare 
tutto ciò che è falsità, le fedi fatte di abitudine e paura,  
una politica che è solo far carriera,  
il perbenismo interessato, la dignità fatta di vuoto,  
l’ ipocrisia di chi sta sempre con la ragione e mai col torto 
e un dio che è morto,  
nei campi di sterminio dio è morto,  
coi miti della razza dio è morto 
con gli odi di partito dio è morto… 
 
Ma penso 
che questa mia generazione è preparata 
a un mondo nuovo e a una speranza appena nata 
ad un futuro che ha già in mano,  
a una rivolta senza armi,  
perché noi tutti ormai sappiamo 
che se dio muore è per tre giorni e poi risorge,  
in ciò che noi crediamo dio è risorto,  
in ciò che noi vogliamo dio è risorto,  
nel mondo che faremo dio è risorto… 

Auguri Maestro e buona lettura e ascolto a tutte e tutti. 

Partiamo da un anniversario, quello della nascita di una giornalista e scrittrice combattente, Oriana Fallaci, Storica ed eroe, nata il 29 giugno del 1929, in un ritratto a tutto tondo, commovente e quanto mai attuale nella settimana in cui la prova di italiano degli Esami di Stato ha visto solo il suo nome tra le dodici tracce scelte dal Ministero. Da Firenze, città natale dell’autrice di Niente e così sia facciamo un viaggio virtuale in Polonia a incontrare la donna di Calendaria, Wisława Szymborska. Nobel per la letteratura, poeta ironica e geniale, che ha sempre conservato lo stupore nei confronti del mondo. In Veneto si celebra il talento di Toti Dal Monte, a 130 anni dalla nascita è il secondo anniversario che ricordiamo con un bellissimo racconto biografico. 
Le grandi assenti non sono solo nel canone letterario, come ci ricorda l’autrice della serie Rileggere i classici. Il primo Novecento. Parte prima. Non se ne vedono se non relegate in box alla fine di qualche capitolo nei Manuali di storia, filosofia, economia, in tutti i testi che le case editrici propongono alle classi. Anche nella pittura avremo modo di scoprire una grande assente, Josefa de Óbidos, nata a Siviglia, una delle più celebri artiste portoghesi dell’età barocca, diventata famosa come pittrice di nature morte, solo dal 1949 riconosciuta nella sua grandezza. Dal Portogallo ci muoviamo idealmente in Finlandia dove Facciamo conoscenza con la poeta Edith Södergran, poco apprezzata quando scrisse, nei primi anni del Novecento, come tutte le persone in anticipo su tempi che ancora vedevano «la donna come essere passivo, dominato, come spettatrice delle imprese maschili, mero oggetto del componimento poetico». Una vera sovvertitrice dell’ordine patriarcale, assolutamente da scoprire. Ritorniamo in Italia, precisamente in Sicilia, per incontrare un’altra donna obliata e recentemente riscoperta, Elena Marano. Pedagogista, filantropa, scrittrice, nubile per scelta, nella recensione al libro omonimo di Chiara Longo. 

Il rapporto madri e figlie dai primi anni del femminismo a oggi è molto cambiato. Ce ne parla, con sguardo lucido e riflessioni profonde l’autrice di Di madre in figlia: la faglia generazionale. Quanto e come i media si occupano degli sport femminili di squadra e delle atlete è un’altra puntata della serie Corpi, stereotipi, sport, in cui in conclusione si afferma amaramente che «i media faticano enormemente ad adattarsi ai cambiamenti reiterando una narrazione anacronistica in quanto fortemente influenzata da stereotipi di stampo sessista e maschilista». Niente di nuovo sotto il sole, purtroppo. 

«Può/sa un genere letterario a lungo considerato marginale aiutarci a pensare il presente e il suo diffuso disagio? Può/sa l’immaginazione del futuro contribuire a indicarci una strada fuori dalle secche – pratiche e simboliche – della “multicrisi” in cui siamo immerse/i?». A queste e altre domande cerca di dare risposte Una fantascienza leggendaria, che recensisce il numero 159 della rivista Leggendaria. L’altra recensione di questo numero è in Timarete, cinque artiste incantatrici, che ci racconta una mostra, che durerà fino all’8 luglio, presso lo spazio Tiziano Zalli a Lodi, in cui si è realizzata una splendida sinergia tra cinque donne. 

Dilatiamo il nostro sguardo sul mondo con una nuova puntata tratta dal Rapporto 2022-2023 di Amnesty international. Focus su Asia e Pacifico, in cui avremo modo di constatare che noi viviamo in quella che a buon diritto si può definire la “ZTL del Pianeta”. A India e Giappone si ricollega, con lo sguardo all’alimentazione, Grandi e piccole cucine. Il modo di mangiare orientale. Restando in tema di cibo, vi auguriamo buon appetito con la ricetta della Serie La cucina vegana: Panzanella croccante con verdure fresche, «una ricetta classica della cucina italiana, una cucina povera, di recupero, antispreco, e buonissima». 
SM 

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Articolo di Giusi Sammartino

Laureata in Lingua e letteratura russa, ha insegnato nei licei romani. Collabora con Synergasia onlus, per interpretariato e mediazione linguistica. Come giornalista ha scritto su La Repubblica e su Il Messaggero. Ha scritto L’interpretazione del dolore. Storie di rifugiati e di interpretiSiamo qui. Storie e successi di donne migranti e curato il numero monografico di “Affari Sociali Internazionali” su I nuovi scenari socio-linguistici in Italia.

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