Le immagini non tradiscono mai e nei pannelli della Mostra sulle Donne Nobel per la Pace esposta fra le altre nei locali del Castello Imperiali a Francavilla Fontana da Toponomastica femminile; i pochi volti femminili diversamente colorati rispetto agli uomini in bianco e nero insigniti del Nobel confermano ciò che già forse immaginavamo o sapevamo.
Sono sparute eccezioni in un Olimpo maschile, ma nella loro scarsità in netta contraddizione con la vulgata plurisecolare secondo cui il pacifismo connota tutto il genere femminile, perché il dare la vita non può essere accoppiato con il togliere la vita: tertium non datur.


Inevitabilmente, questi volti nobili, talvolta seri, talvolta sorridenti, ci restituiscono anche l’interrogativo legato al trinomio donne-guerre-pacifismo, perché le donne hanno subito le guerre, non sono state ascoltate come costruttrici di pace, hanno smentito la guerra stessa ricostruendo un quotidiano accettabile, ma non l’hanno mai decisa politicamente in gran parte della storia passata e recente. Nel loro perseguire la pace, scorgiamo in fondo una ennesima contraddizione per il genere femminile: rispetto alla irrazionalità delle guerre, il genere femminile ha dato prove di esercizio di razionalità pur essendo considerato un genere privo di ragione, emotivo e immaturo sempre, un essere tutto sommato imperfetto che non giunge mai a maturazione, rispetto a quello maschile, emblema della ragione; peccato che la guerra sia sempre stata una smentita della ragione stessa, altro che sonno della ragione; piuttosto scomparsa di qualunque lembo di facoltà intellettiva. Anche le guerre che recentemente sono state definite intelligenti, di intelligente hanno poco, sono appunto irragionevoli.
Ma le contraddizioni muovono il mondo e anche il pensiero, e ciò rende ancora più interessanti queste Nobel prestigiose che hanno agito in parti del mondo diversissime, disegnando una sorta di globalizzazione della pace, anziché economica, una volta tanto. Le diverse confessioni religiose cui queste donne si sono ispirate non fanno altro che riportare alla mente come la parola religio indichi un legame non solo fra umani, ma anche fra essi e tutto quell’habitat che la guerra distrugge; se per Eraclito, il polemos era padre di tutte le cose, oggi possiamo dire che da quando le armi come l’atomica hanno oltrepassato il limite dell’umano, le generazioni saranno senza padri, la fine sarà irreversibile, senza vincitori né vinti; il solo profitto che pochi ne ricaverebbero, potrebbe dialogare solo con gli spettri.
Le donne finora insignite del Nobel appartengono a periodi storici diversi, quindi anche a scenari di guerra e di pace completamente differenti. La prima, Bertha von Suttner, 1905, su cui mi sono soffermata in diversi miei scritti, si muove negli anni precedenti la Prima guerra mondiale, e le sue peculiarità sono anche nell’intreccio biografico che la porta a conoscere quasi casualmente Alfred Nobel; ma anche a lavorare con lui esercitando compiti di segretaria, così di lei si legge, secondo un uso linguistico che oggi definiremmo sessista. Svolgere compiti di collaborazione con colui che partendo dall’invenzione della dinamite, arriva a concepire il Nobel per la Pace non può essere ridotto a compiti di segreteria. Fra i suoi meriti, anche l’aver scritto un best-seller, Giù le armi, che sotto forma di romanzo, inventa un nuovo stile di comunicazione letteraria per promuovere la pace.
La seconda donna-Nobel si muove in uno scenario geopolitico completamente diverso; la sociologa statunitense Jane Addams, fra le fondatrici della Women’s International League for Peace and Freedom (Wilpf), vince il Nobel nel 1931, ad anni di distanza dalla prima guerra mondiale, ma all’avvicinarsi dell’affermazione del nazismo, che saldatosi con il fascismo, di lì a poco sarà il principale responsabile di una seconda guerra, definita anch’essa mondiale, più sanguinosa della prima; si concluderà con l’uso dell’atomica per cui paradossalmente può essere considerata anche una non guerra, in quanto la distruzione dell’umanità da allora in poi può essere perseguita dalla cosiddetta “stanza dei bottoni”. L’associazione da lei fondata, di sole donne, dall’aprile al giugno 1915, si era rivolta a tutti i capi di Stato europei nel tentativo di fermare la guerra, non per armistizio, ma per tacito accordo. Il pacifismo femminile internazionale, che proponeva l’arbitrato internazionale, è tuttora uno dei capitoli meno studiati della storia contemporanea e assente dai manuali scolastici.
Nel 1946 il premio va a Emily Greene Balch, pacifista, scrittrice ed economista statunitense, anch’essa appartenente alla Wilps.
Negli anni Settanta, l’esplosione della rivoluzione femminile e femminista in tutto il mondo ha i suoi effetti anche sui Nobel: nel 1976 vincono per la prima volta due donne: le attiviste Betty Williams, irlandese, e Mairead Corrigan, britannica, fondatrici della Community of peace people, organizzazione che si batteva per una soluzione pacifica della questione dell’Irlanda del Nord, appunto testimonianza della coesistenza pacifica fra visioni religiose diverse.
Nel 1979, a quattro anni di distanza dall’inizio dell’Anno internazionale della donna inaugurato dall’Onu nel 1975, con la prima delle Conferenze internazionali a Città del Messico, a Madre Teresa di Calcutta viene assegnato il Nobel; la suora albanese delle Missionarie della Carità, attive a Calcutta nel sostegno ai poveri, ribalta la logica del profitto, rifiutando il banchetto cerimoniale per i vincitori e chiedendo che i seimila dollari di fondi vengano destinati ai poveri di Calcutta; con quella cifra, avrebbero potuto essere sfamati per un anno intero.
Sono necessari molti anni prima che il Nobel abbia ancora un volto femminile, quello di Aung San Suu Kyi, nata nel 1945 a Rangoon, in Birmania, ora Myanmar. Una vera icona della democrazia, uno dei più importanti simboli a livello mondiale della resistenza pacifica contro l’oppressione. A novembre del 2015, dopo anni di prigionia, nelle prime elezioni considerate libere, il suo partito ha vinto le elezioni in Myanmar.
Appena un anno dopo, nel 1992, in tutt’altra parte del mondo, una seconda icona della libertà, Rigoberta Menchù è la destinataria del Nobel. Leader pacifista guatemalteca di etnia maya quiché, ha ricevuto nel 1992 il Premio «in riconoscimento dei suoi sforzi per la giustizia sociale e la riconciliazione etno-culturale basata sul rispetto dei diritti delle popolazioni indigene». Era nata in una numerosa famiglia contadina, povera e discriminata per motivi razziali, in cui la madre e altri membri della famiglia furono torturati e uccisi dai militari o dagli “squadroni della morte”. Rigoberta Menchú ha scelto una lotta pacifica di denuncia del regime guatemalteco, a differenza dei fratelli impegnati nella guerriglia.
L’americana Jody Williams, fondatrice e coordinatrice della Campagna internazionale contro le mine, nel 1997 ha ricevuto il Nobel per il suo lavoro di messa al bando e rimozione delle mine antiuomo.
Shirin Ebadi, nel 2003 è invece la prima donna musulmana a ottenere questo riconoscimento; ospite di atenei italiani ha raccontato le vessazioni del governo iraniano, che ha tassato il suo Premio Nobel, sequestrato i beni e quelli della sua famiglia, ma per l’attivista la libertà e la democrazia hanno il loro prezzo.
L’anno successivo, 2004, Wangari Muta Maathai è stata la prima donna africana a ricevere il Premio Nobel per la pace per «il suo contributo alle cause dello sviluppo sostenibile, della democrazia e della pace». Componente del parlamento keniota, apparteneva all’etnia kikuyu.
Nel 2011 il premio è andato a ben tre donne: la politica Ellen Johnson Sirleaf, presidente della Liberia; la pacifista liberiana Leyman Gbowee, impegnata in prima persona a favore della pace e dei diritti umani delle donne nel suo paese, vittima in prima persona di un marito violento. Ha fondato l’associazione Women in Peacebuilding Network (Wipnet) e nel 2003, nel momento più drammatico della guerra civile liberiana, ha istituito la Women of Liberia Mass Action for Peace, un’associazione di cristiane e musulmane, che ha messo in atto una serie di iniziative non violente. La terza, l’attivista yemenita Tawakkol Karman, leader del movimento ‘Giornaliste senza catene’ per la libertà di pensiero e di espressione.
Nel 2014 la diciassettenne Malala Yousafzai, diventata un simbolo del diritto alla conoscenza, pagando un prezzo fisico in prima persona, riceve il premio per il suo impegno a favore dell’istruzione di bambine/bambini e delle donne. È la più giovane vincitrice del Nobel per la Pace, in assoluto fra uomini e donne.
La singolarità del Nobel assegnato nel 2015 al Tunisian national dialogue quartet, è quella di essere appunto un quartetto, premiato per «il contributo offerto alla costruzione della democrazia dopo la rivoluzione dei gelsomini del 2011». Era formato da quattro organizzazioni della società civile: il sindacato generale dei lavoratori Ugtt, il sindacato patronale Utica, l’Ordine degli avvocati e la Lega Tunisina per i Diritti Umani; nato nell’estate del 2013, dà vita a un processo politico pacifico alternativo in un momento in cui la Tunisia è sull’orlo della guerra civile.
Nel 2018 sono di nuovo i diritti negati nei paesi islamici a tornare alla ribalta. Nadia Murad assieme a Denis Mukwege riceve il Nobel; nel 2014 era stata rapita e tenuta in ostaggio dallo Stato Islamico. Nel settembre 2016, è nominata prima Ambasciatrice Onu per la dignità dei sopravvissuti alla tratta di esseri umani.
Infine, nel 2021, Maria Ressa assieme a Dmitry Muratov ha ricevuto il Nobel per la pace; appartenenti al mondo del giornalismo e del reportage, hanno lottato per salvaguardare la libertà d’espressione, facendo conoscere spaccati importanti su Filippine e Russia.
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Articolo di Fiorenza Taricone

È Ordinaria di Storia delle dottrine politiche presso l’Università degli Studi di Cassino e Lazio Meridionale, dove insegna anche Pensiero politico e questione femminile. Ha fatto parte della Comm. Nazionale Pari Opportunità. È autrice di saggi, particolarmente centrati sull’associazionismo in Italia tra Ottocento e Novecento. Fa parte del Comitato Scientifico delle Fondazioni Nilde Iotti, Anna Kuliscioff e Turati-Pertini.
