Carissime lettrici e carissimi lettori,
mentre a Verona si fa un Festival della Bellezza con ventiquattro maschi su ventiquattro relatori, come se la bellezza fosse una cosa che riguarda e di cui fruiscono solo gli uomini, che solo i maschi possono capire e discutere (stereotipo sul femminile per eccellenza), da Venezia arrivano i film delle donne, tutti molto belli, interessanti e profondi. E possiamo finalmente cominciare a vederli nelle sale. Spicca, tra i film delle donne e sulle donne Miss Marx della bravissima Susanna Nicchiarelli, classe 1975, che già da tempo si adopera a descrivere nei suoi film figure femminili, dalla piccola Luciana di Cosmonauta (2009) che ha fede nella possibilità futura di poter cambiare il mondo, a Caterina e Barbara, le due sorelle de La scoperta dell’alba (presentato al Festival di Roma nel 2012) che è tratto dal libro con lo stesso titolo scritto da Walter Veltroni. A Venezia Nicchiarelli aveva già ricevuto un premio (Miglior film per la sezione Orizzonti), nel 1988, con Nico, la storia degli ultimi anni di vita della cantante Christa Päffgen, un’altra voce femminile. Ma questo arrivato a Venezia 2020, festival coraggioso per tanti versi, è stato giudicato come l’opera migliore della regista, giungendo a contendersi il Leone d’oro: «un film maturo e raffinato, che racconta la storia di Eleanor Marx, la figlia più piccola del filosofo Karl Marx: brillante, colta, libera e appassionata, è stata fra le prime donne ad avvicinarsi ai temi del femminismo e del socialismo, partecipando alle lotte operaie e combattendo per i diritti delle donne e l’abolizione del lavoro minorile, fino all’incontro fatale con Edward Aveling, che cambierà la sua vita per sempre». (NoiDonne). Un’altra donna, Anna Rocha de Sousa, regista di origine portoghese, è stata celebrata in questo Venezia 77. Il film si intitola Listen e ha vinto ben due premi, quello Speciale della Giuria Orizzonti e il Leone del Futuro Miglior Opera Prima. Racconta la storia di una famiglia portoghese immigrata a Londra, dove vive in una zona periferica in condizioni davvero disagiate. Un altro premio importante è andato all’attrice Khansa Batma, migliore interprete femminile per il film di Ismaël el Iraki, Zanka Contact, intensa storia d’amore nata da un incidente stradale e ambientata a Casablanca. Non possiamo poi dimenticare la bellissima Tilda Swinton del film di Pedro Almodovar The Human voice (la voce umana), che quest’anno a Venezia ha ricevuto il Leone d’oro alla carriera, riservato l’anno passato al suo regista. Una bella coincidenza.
Intanto è passata una settimana dall’inizio della scuola, almeno per la maggior parte delle regioni, e sembra che, seppure sia troppo presto per giudicare, l’impatto sanitario, almeno in linea di massima, sia andato bene o comunque non abbia avuto ripercussioni significative. Dai social ai quotidiani rimbalzano notizie di scuole dove non ci sono mascherine o entrate differenziate, ma si rispetta il distanziamento. Noi continuiamo a sperare che tutto vada bene e che non si frappongano ostacoli significativi.
Ma la scuola non è solo emergenza sanitaria. In questi giorni un’insegnante mi ha fatto notare un articolo scritto dallo psichiatra e psicoterapeuta Massimo Recalcati a giugno, quando si faceva più fitta la discussione sull’apertura o meno a settembre delle scuole e sulle problematiche da affrontare per evitare al massimo gli eventuali contagi. Recalcati nel suo intervento pone invece lo sguardo sull’importanza e la necessità di pensare alla scuola, anche e soprattutto ora, non solo in termini di protezione sanitaria. Per questo mi piace riportarvi, per chi non lo avesse letto, buona parte del pensiero esposto dallo psicanalista milanese: «Una calamita mortifera ha bloccato le nostre energie e le nostre risorse. Ne è un esempio emblematico e drammatico quello della scuola. Tutto il dibattito attuale sul suo presente e sul suo futuro appare integralmente assorbito dal problema della sicurezza. Non è illegittimo, considerata la gravità della bufera che ci ha investiti. Il problema della sicurezza in un contenitore istituzionale ampissimo com’è quello della scuola deve essere giustamente affrontato e risolto. Tuttavia – continua – limitarsi a ragionare sulle distanze necessarie da preservare, sul rischio degli assembramenti e sulle mascherine, sulla presenza o meno delle pareti di plexiglass (allora, a giugno, era un argomento molto discusso, n.d.r.) spoglia fatalmente la riflessione della scuola schiacciandola sulla necessità della gestione della crisi sanitaria. Ma la scuola italiana è da tempo in terapia intensiva. Ben prima del Covid. Essa resiste solo grazie alla tenacia di molti dei suoi protagonisti, in primis quella degli insegnanti che preservano con il loro impegno e la loro passione il respiro vivo del corpo della scuola». Poi stupendamente Massimo Recalcati si incammina in un discorso degno di un/a ministro/a dedicato/a, parlando di cosa veramente ha bisogno e deve essere la scuola e si chiede: «Per risollevare la scuola italiana dalla sua condizione di malattia non sarebbe necessario allora prevedere una terapia d’urto? Alcune raccomandazioni per il suo prossimo futuro sono talmente ovvie che potrebbe sembrare inutile ricordarle ma esse si impongono dopo la vicenda del Covid. Ricordiamo almeno la principale: la relazione non è qualcosa che si aggiunge alla didattica come una sua appendice esterna, ma è la condizione di ogni didattica. Dunque non esiste didattica a distanza. La tecnologia non può supplire alla vita comunitaria della scuola. Ma ribadita questa raccomandazione il problema non è affatto risolto ma, al contrario, inizia a porsi. Cosa fare per il paziente-scuola? Avrebbe meno dignità di essere curato con attenzione rispetto ad altri? Se i nostri governanti riuscissero a non lasciarsi irretire dall’emergenza sanitaria dovrebbero indicare le linee guida per una cura che non deve coincidere con la gestione dell’emergenza Covid». Non sono da poco le parole dello psichiatra lacaniano e vanno dritte al punto, alla piaga dolente. «Bisogna ricordarlo: la scuola non ha come obiettivo la difesa della sicurezza dei suoi protagonisti, ma la difesa della condizione di civiltà di un Paese. Per questo la sua competenza non è settoriale ma investe la nostra comunità, la sua stessa identità. Il dibattito sulla scuola non può restare ostaggio del virus e del problema della sicurezza. Non sarebbe allora il caso di ripensare alla ripartenza innanzitutto attraverso una rimodulazione profonda dell’attività didattica? Il campo è ampio: favorire l’interdisciplinarietà, rendere possibile una diversa circolazione degli allievi attraverso la composizione di piani di studio più adeguati alla loro attitudine come già accade in molti Paesi, portare la scuola verso la città, nei quartieri, nei territori, nei luoghi culturali, reinserirla come protagonista attiva della nostra vita sociale; insomma aprire e rinnovare gli spazi didattici della scuola tenendo anche conto delle nuove esigenze imposte dal virus; abolire definitivamente un uso solo sadicamente numerologico della valutazione ancora oggi tristemente diffusa anche nei licei più rinomati del nostro Paese; riqualificare seriamente la formazione e il lavoro degli insegnanti per favorire la permanenza nella scuola dei migliori…. È necessario uno sforzo politico e culturale di immaginazione e di pensiero. Meglio se collettivo, meglio se capace di coinvolgere gli/le insegnanti e le loro associazioni. In ogni caso libero, laico, vivo, insomma non pietrificato dallo sguardo di Medusa del virus». (La scuola in terapia intensiva, La Repubblica, 18 giugno 2020).
Perdonate la lunghezza della citazione, ma mi è apparsa importante e interessante per tutte e tutti noi che con la scuola personalmente abbiamo avuto a che fare, sia direttamente che come madri e padri, sia perché so che tra le lettrici e i lettori di vitaminevaganti.com ci sono molte e molti docenti a cui la scuola è cara e che si impegnano, come lo hanno fatto nel periodo della Dad, al suo funzionamento al meglio e al bene dei ragazzi e delle ragazze; le problematiche esaminate da Recalcati sono le stesse che, proprio su suggerimento di insegnanti amiche e amici, avevo riportato nell’ultimo editoriale.
Prima che si concluda il mese che Francesco Guccini ha amato immortalare come «il mese del ripensamento sugli anni e sull’età… dopo l’estate porta il dono usato della perplessità» che ben si adatta a ciò che abbiamo appena scritto e citato, è necessario ricordare un grande scrittore russo Lev N. Tolstoj che in questo mese è nato, a Jasnaja Poljana, il 9 settembre del 1828. Ma del grande autore di Anna Karenina e della Sonata a Kreutzer o del magnifico racconto La morte di Ivan Ili’č, per nominare solo alcune delle sue opere che mi hanno più appassionata, riparleremo con più cura a novembre per i centodieci anni dalla morte (20 novembre 1910) avvenuta, dopo che il grande scrittore era volutamente scappato di casa, nella stazioncina di Astapovo in viaggio verso la Crimea, stremato dal freddo e dalla polmonite. Aveva ottantadue anni e quasi dieci anni prima, a febbraio del 1901, era stato scomunicato dal Santo Sinodo, per le sue idee anarchico-cristiane. Nello stesso anno era stato proposto per il premio Nobel.
Parliamo di Russia e di letteratura ed entriamo subito nel numero odierno della rivista con un altro grande autore, Fëdor M. Dostoevskij, lo scrittore che ha firmato romanzi indimenticabili come Delitto e Castigo, I Fratelli Karamazov o il meno conosciuto ma ugualmente bello L’Adolescente. Lo incontriamo attraverso la sua seconda giovanissima moglie (aveva venticinque anni meno di lui): Anna Grigor’evna Snitkina. Nell’articolo si parla delle tante opere che tra cinema e letteratura ricordano i due sposi nei venti e passa anni vissuti insieme fino al romanzo di Giuseppe Manfridi Anja la segretaria di Dostoevskij (2019).
Affascinanti e, secondo me, da far rientrare in pieno in un viaggio letterario per la fantasia, l’originalità e la varietà delle versioni che offrono, anche una sotto l’altra, sono i Nizioleti, i lenzuolini di Venezia, che segnano non solo i nomi delle strade, che qui si chiamano calle, rio, corte, fondamenta salizada, campo, campiello, (da qui il nome del prestigioso premio letterario), ma anche i ponti, come quello dei Zogatoli (un tempo intitolato a San Giovanni Crisostomo). Questo ponte ci porta, venendo dalla famosa Strada Nova, al Fondaco dei Tedeschi, oggi particolare centro commerciale di grandi firme, con opere d’arte esposte qua e là e un bel terrazzo dal quale, rigorosamente su appuntamento, si riesce a dare uno sguardo d’insieme sui tetti dell’intera laguna. Leggere l’articolo è memoria (e tanta curiosità di chiarire dubbi e domande aperte) e stimolo ad andare a scoprirli, uno per uno, come in un vero percorso turistico affiancato a quello delle bellezze della Serenissima. Sì, perché i Nizioleti nominano i luoghi di Venezia, ma non sono uno stradario a uso, che so, dell’ufficio postale per recapitare pacchi o lettere o per farvi trovare dall’esattore delle tasse. Questi rettangoli bianchi con i bordi sottolineati in nero e i nomi rigorosamente scritti a mano, sono la storia della città lagunare, persino dei suoi pettegolezzi come, secondo quanto ricordato dall’autore nell’articolo, quel riva de Biasio, a una fermata di vaporetto (se prendete la linea 1 che costeggia tutto il Canal Grande) dalla stazione centrale di Santa Lucia. Biasio sarebbe Biagio Cargnio, salumiere del ‘500 condannato dalla Serenissima per aver insaporito il suo famoso guazzetto con carne di… bambini! Insomma leggete e, appena possibile, andate o ritornate con occhi nuovi a Venezia e giratela a piedi senza tempo né meta, perché Venezia più di ogni altra città, si ama penetrandola lentamente, fisicamente, passo su passo, perdendosi, con passione, come con un’amante.
Da Venezia il numero odierno della rivista ci porta a Brescia per un’ulteriore puntata sulle donne che segnano i luoghi della città; successivamente si vola in Europa, idealmente a cavallo di una scopa, per cercare i luoghi delle streghe e poi ci si ferma sulla seconda puntata della serie Corpi, con ancora tanta storia e tanto da riflettere. Finiamo spostandoci geograficamente in Sardegna, la terra antica di voci belle come quella di Maria Carta di cui ci piace ricordare una delle canzoni più note, cantata con l’altrettanto stupenda voce dei Tazenda, Andrea Parodi, anche lui scomparso prematuramente: No potho reposare amore ‘e coro,/ Pensende a tie sò onzi momentu./ No istes in tristura prenda ‘e oro,/ Ne in dispraghere o pessamentu./T’asseguro chi a tie solu bramo,/ Ca t’amo forte t’amo, t’amo e t’amo./ (Non posso riposare amore del mio cuore,/ Pensando a te ogni momento/ Non essere triste, mia gioia,/ Né addolorata o preoccupata/ Ti assicuro che desidero solo te,/ Perché ti amo tanto, ti amo, ti amo e ti amo). Forse della bravissima cantante sarda ce ne sono di più impegnate e belle, ma permettetemi un’altra, affettuosa, trasgressione nel personale.
Buona lettura a tutte e a tutti e viva la scuola vivace e viva!
Editoriale di Giusi Sammartino
Laureata in Lingua e letteratura russa, ha insegnato nei licei romani. Collabora con Synergasia onlus, per interpretariato e mediazione linguistica. Come giornalista ha scritto su La Repubblica e su Il Messaggero. Ha scritto L’interpretazione del dolore. Storie di rifugiati e di interpreti; Siamo qui. Storie e successi di donne migranti e curato il numero monografico di “Affari Sociali Internazionali” su I nuovi scenari socio-linguistici in Italia.
Bello.
Bello anche lo stralcio veneziano nel Suo meglio cinema europeo di fine estate. Conoscevo poco la tua passione per il cinema …, anche qui, sempre attenta e profonda con venature intime. Forse, però, hai scordato l’aura magica di Emma Dante …
Grazie
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grazie Bruno del tuo commento. Sono contenta e hai ragione sì….l’aura magica vera!
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