Carissime lettrici e carissimi lettori,
La Tragedia e la Commedia sono due maschere del Teatro che un artigiano veneziano sta costruendo nel suo laboratorio. Sono un’immagine carica di un forte simbolismo, una metafora della vita odierna che si realizza nella sensazione sconsolata di colui che le sta creando e tenta, inutilmente, di compiere il passaggio dalla prima verso la seconda, trovandosi, nel viaggio, fermo, bloccato in una paralisi dirompente.
Venezia e la difficoltà espressa dal suo artigiano non è unica, ma rappresenta l’unicità simbolica delle città, dei luoghi che sono cresciuti per l’accoglienza e ora si sentono morire per la sua mancanza.
Venezia è il simbolo più forte, per tanti versi struggente, di questa contraddittoria realtà che ce l’ha mostrata nell’incanto del suo mutismo metafisico e dimenticato, e oggi la vede soffocare dal suo stesso silenzio e annaspare distrutta per quella stessa assenza che le dava sostegno. Lei, la Serenissima, per di più messa in ginocchio due volte nel giro di meno di un anno, per l’acqua alta e, ora, per il coronavirus. Seppure, a ben pensare, una riflessione va fatta. Forse quest’assenza potrebbe consentire un ritorno diverso, riprogettato, per non dar spazio, né a Venezia, né altrove, a quel turismo malato e mortificante, da mordi e fuggi, fatto di tempo cronometrato. Un turismo e una maniera di intendere il viaggio che non possiamo e non dobbiamo rimpiangere e che dava poco e male al territorio, finendo solo per mettere in fuga chi in quei luoghi ci è nato/a e vorrebbe continuare a viverci.
La metafora potrebbe essere una leva per risollevare questo mondo andato in malattia. Da pochi giorni ha riaperto il Labirinto della Masone a Fontanellato, vicino Parma, quella Parma straziata dal passaggio dei camion militari con i corpi dei morti per Covid-19, degli anziani lasciati soli nel passaggio più estremo. Il labirinto voluto da Franco Maria Ricci, simbolo di bellezza, con questa riapertura celebra i suoi dieci anni di venuta al mondo (29 maggio 2010).
Celebra così il labirinto di Parma e il suo autore, lo sceneggiatore Gabriele Romagnoli dalla rubrica di un quotidiano, tra ricordi personali e riflessioni: «Cosa può essere più simbolico? Ci si entra per uscirne. É complicato, ma la via c’è. Ci camminai insieme con lui (Franco Maria Ricci, ndr), prima dell’inaugurazione. Un folletto con la giacca di loden, una coccarda sul cuore. Affannato dalla propria storia: adagiato su un letto da campo in Kurdistan, cameriere nei night di Londra, speleologo nella Dordogna, incontrò l’amore in aeroporto, l’amicizia in Borges. Da lui imparò che «la convenzione di ogni racconto fantastico è che sia veridico.» Così ha reso vera questa fantasia: tre chilometri di bambù, venuti dalla Francia, suggeriti da un giardiniere giapponese. Il labirinto è come la vita: c’è chi l’affronta, chi la gode, chi la subisce. Incontri, vicoli ciechi, false piste, spettacolari deja vu. Il cielo, sopra, t’irride. Quanta fatica, per non andare da nessuna parte. Eppure, il senso s’annoda lì, nella riproduzione del nostro cervello o del nostro circuito sanguigno. Nulla esiste, fuori. Soltanto valgono variabili del dentro. Ogni iniziale è una scorciatoia: FMR suona come efhemere, effimero. Non c’è mai stato tempo, né certificato spazio: sono soltanto conteggi. Fase 2: fuori dal labirinto. Dentro un altro, più grande. Scatole cinesi, giusto?»
(La Repubblica, 27 maggio).
Non occorre aggiungere altro, la storia la sappiamo: da Cnosso in poi, attraverso anche i pavimenti delle chiese (quello di Sant’Apollinare in Classe ne è un esempio) dove si indica al fedele la strada difficile per arrivare a Dio, sino a questi più moderni come quello appena citato o tanti altri costruiti in tutti i continenti in epoche diverse, dal Sudafrica, alla Cina, a quello di San Francisco in Usa o di Montréal, in Canada. Il labirinto ci ammalia e ci spaventa e cerchiamo l’audacia di Dedalo che lo costruisce e ci rimane incastrato fino a inventare la sua personale via di uscita sulle ali di Icaro, fino al filo dato da Arianna al fratello Teseo per rivederlo ancora.
Noi donne e uomini di questa terra siamo costrette e costretti ad osare per considerare il mondo con sguardi nuovi, ma anche per combattere una quotidianità che tenta di sopprimerci oggi, come tante altre volte. E la scelta non è mai semplice né immediata la soluzione, proprio come succede nel labirinto.
Anche quel giorno si è osato. Quel 2 giugno del 1946 dopo vent’anni di regime, una guerra orribile, tanti uomini e tantissime donne (quasi il 90 per cento delle aventi diritto) si dovettero trovare di fronte a una scelta non facile (tanto che l’Italia si divise a metà) tra una continuazione della monarchia dei Savoia (più forte nel sud) e un azzardo verso una Repubblica tutta da immaginare e progettare (votata di più al nord). Le donne, le più giovani erano nate nella prima metà del 1935 (per i 21 anni compiuti per il diritto al voto), avrebbero dato un apporto decisivo. Lo leggerete in un articolo che ricorda questa data, che oggi rimarrà senza festeggiamenti ufficiali per le strade, come lo è stato per il 25 aprile e il 1 maggio.
Tra le donne elette per creare questo nuovo Paese c’era anche Ottavia Penna Buscemi prima donna parlamentare della sua Caltagirone, dove era nata il 2 aprile del 1907. La troviamo qui ricordata nella rubrica Le Mille e di lei leggeremo tutta l’onestà politica, la capacità di aiuto sociale, la forza di essere sempre dalla parte delle donne, l’altezza intellettuale che la vide, oltre che tra le madri costituenti, anche ad affiancare Enrico De Nicola per la presidenza al Quirinale.
Il coraggio di percorrere una strada non facile fu anche quello che guidò costantemente, nella sua lunga e significa vita Hellen Keller, la vera protagonista, la cui esistenza terrena conosciamo attraverso il famoso film di Arthur Penn del 1962, Anna dei miracoli. Nell’articolo che segue, a lei dedicato, veniamo a sapere molto di più di questa grande donna che seppe vivere senza i sensi della vista e dell’udito, ma che fu capace di riempirla di una straordinaria energia e di un impegno civile costante. Scrisse tanto e non si contaminò con l’odio e con l’invidia, ma ebbe opportunità di avvicinare personalità tra le più illustri del suo tempo: da Mark Twain che conobbe all’università (si laureò a 24 anni ad Harvard) a Winston Churchill, Albert Einstein, Dwight Eisenhower, John Kennedy, Charlie Chaplin, Eleanor Roosevelt, Rabindranath Tagore, John Rockefeller. E vinse persino un Oscar (1965) per un documentario ispirato alla sua vita.
Altra donna di coraggio è Fatima Khatun, a cui rimando per l’interessante vita, a dispetto di tutti i preconcetti e i clichè che abbiamo sulle donne nell’Islam, come nell’Ebraismo e nel Cristianesimo, che comunque palesemente rimangono, di base, patriarcali. Fatima, donna colta, devota e ricca, moglie del governatore di Damasco Mustafa Pasha, fece costruire a fianco della moschea di Janin una scuola dove le ragazze potessero imparare, oltre che a leggere e scrivere, anche a innamorarsi della matematica e delle scienze. Questo nel XVI secolo e la scuola, che esiste ancora, porta il nome di Fatima Khatun.
Coraggiose furono anche le donne socialiste tra la fine dell’ottocento e il secolo scorso narrate in un bel libro da Fiorenza Taricone che le racconta in un’interessante intervista fatta a tavolino tra due grandi amiche. Belle anche le storie di Giuliana Benzoni, nobildonna antifascista, e di Ildegarda di Bingen, la santa scrittrice, teologa e grande musicista del Medioevo. Importante, e triste, perché inspiegabilmente ancora non risolta, l’intitolazione di una strada nella sua amatissima città alla grande Fernanda Pivano. Eppure a Genova (lo leggerete in due interviste raccolte in un articolo) parti politiche diverse sentono nel cuore questo dovuto omaggio all’intellettuale alunna/amica di Pavese e cara a genovesi come De André e don Gallo.
Sicura che vi appassionerete alla seconda puntata della nostra serie delle Le Streghe, uno stigma che questa volta vede coinvolto un intero paese del Piemonte. Ci commuoverà e daremo tutta la stima altrettanta tenerezza per Avi Shiffman, La sua storia di geniale adolescente ci deve far ricredere sull’opinione che abbiamo dei nostri e delle nostre giovanissime perché almeno questo ragazzo americano, di appena 17 anni è stato capace, in ferrea coerenza con la sua onestà, di dire il suo no a un’enorme quantità di danaro che l’industria gli riservava.
Ma finiamo con un compleanno. Con la prima puntata di oggi vogliamo celebrare gli 80 anni (il 14 giugno prossimo) di Francesco Guccini che con le sue canzoni ha fatto da sottofondo alla nostra vita. Nel nostro piccolo gli regaliamo cinque articoli dedicati alle sue poesie e con lui celebriamo il mese di giugno: «Giugno, che sei maturità dell’anno, di te ringrazio Dio/ in un tuo giorno, sotto al sole caldo, ci sono nato io, ci sono nato io…/E con le messi che hai fra le tue mani ci porti il tuo tesoro/ con le tue spighe doni all’ uomo il pane, alle femmine l’oro, alle femmine l’oro/ O giorni, o mesi che andate sempre via, sempre simile a voi è questa vita mia/diverso tutti gli anni, ma tutti gli anni uguale, la mano di tarocchi che non sai mai giocare, che non sai mai giocare…»Auguri Francesco!
Buona lettura a tutte e a tutti
Editoriale di Giusi Sammartino
Laureata in Lingua e letteratura russa, ha insegnato nei licei romani. Collabora con Synergasia onlus, per interpretariato e mediazione linguistica. Come giornalista ha scritto su La Repubblica e su Il Messaggero. Ha scritto L’interpretazione del dolore. Storie di rifugiati e di interpreti; Siamo qui. Storie e successi di donne migranti e curato il numero monografico di “Affari Sociali Internazionali” su I nuovi scenari socio-linguistici in Italia.